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Cos'è un Mutuo di Scopo?

contratti

http://www.notaiodelfino.it/notizie-legali/rischi-fiscali-dei-contratti-preliminari-ad-effetti-anticipati/

 

 

Cosa succede se un prestito ottenuto dalla banca viene richiesto dichiarando uno scopo ma effettivamente venga poi utilizzato per scopi differenti rispetto a quelli dichiarati all’istituto di credito?

Un comportamento del genere può rendere nullo il contratto e liberare il debitore dall’obbligo di restituzione del finanziamento?

A chiarire la questione è stata una recente ordinanza della Cassazione che ha spiegato, in tema di mutuo di scopo, quando il contratto è nullo. La Corte ha anche risposto alla domanda se è valido il contratto di finanziamento stipulato al fine di estinguere un precedente debito.

Il mutuo di scopo è caratterizzato dal fatto che, nel contratto firmato con la banca, viene indicata la finalità a cui devono essere destinate le somme date in prestito.

In altri termini, la banca si impegna a finanziare un determinato progetto e il cliente a restituire gli importi secondo modalità e tempi concordati.

Lo sviamento da detta finalità rende nullo il contratto. Il “progetto” infatti entra nel contratto e va a integrare la sua stessa causa: venendo meno il progetto viene meno la causa del contratto e quindi la sua validità.

Questa interpretazione è ormai sostenuta da giurisprudenza unanime. In particolare, secondo le aule dei tribunali, nel mutuo di scopo si verifica una «deviazione dal tipo contrattuale» quando il mutuatario (il cliente) abbia assunto espressamente un obbligo nei confronti del mutuante (la banca) – in ragione dell’interesse di quest’ultimo ad una specifica modalità di utilizzazione delle somme per un determinato scopo – e ciò nonostante non rispetti tale obbligo. Pertanto, l’inosservanza della destinazione delle somme indicata nel mutuo rileva ai fini della validità o meno del contratto stesso.

La rilevanza dello scopo del finanziamento fa sì che, nel mutuo di scopo, poiché il mutuatario non si obbliga solo a restituire la somma mutuata, con i relativi interessi, ma anche a realizzare l’attività programmata, siffatto impegno assume rilievo causale nell’economia del contratto, con conseguente nullità in ipotesi di effettiva mancanza di causa.

Si potrebbe pensare che la destinazione delle somme per finalità diverse rispetto a quelle dedotte in contratto è un comportamento che dipende dal soggetto finanziato e non dalla banca; sarebbe pertanto ingiusto rendere quest’ultima corresponsabile – con la sanzione della nullità del contratto – per una condotta che non dipende da essa. In realtà, nella prassi, l’istituto di credito è sempre compartecipe dell’effettivo utilizzo dei propri soldi e può comunque esercitare un controllo sulle condotte del mutuatario.

Diverso è il caso del mutuo fondiario, quello cioè acceso dietro rilascio di un’ipoteca su un immobile del debitore. Questo non viene considerato un mutuo di scopo, non essendo previsto che agli effetti della sua validità la somma erogata debba essere necessariamente destinata ad una specifica finalità che il mutuatario sia tenuto a perseguire. Pertanto la causa – e lo sviamento dalla causa – del finanziamento non rilevano ai fini della validità del contratto.

Spesso le banche concedono un mutuo (dietro ipoteca o fideiussioni) per azzerare pregresse passività che il proprio cliente ha con esse. In pratica, le somme prestate servono non per realizzare un progetto ma per comprare un precedente debito sicché diventano essere stesse fonte di un nuovo piano di restituzione. Tale pratica è ritenuta lecita se non viene utilizzato il mutuo di scopo. La giurisprudenza ha ritenuto che l’utilizzo da parte del mutuatario delle somme ricevute dalla banca mutuante per estinguere le passività accumulate da questi o da altro soggetto nei confronti della banca medesima è fatto estraneo alla causa del contratto di mutuo fondiario che rimane pertanto valido poiché non costituisce un mutuo di scopo.

 

Diversamente all’ipotesi di concessione del muto fondiario nei soli mutui di scopo, tutte le volte in cui le somme somministrate al cliente non vengono impiegate per lo scopo concordato, ma per coprire o ripianare precedenti esposizioni debitorie contratte con il medesimo istituto di credito erogante il mutuo, questo sarà nullo e il debitore, non dovrà più rimborsare le somme avute in prestito.

 
 
tratto da https://www.laleggepertutti.it/215562_mutuo-di-scopo-quando-il-contratto-e-nullo

In cosa consiste un prestito tra familiari?

Martello giudice

https://www.laleggepertutti.it/215114_prestito-tra-familiari-come-fare

 

Il prestito tra familiari, così come qualsiasi altra forma di prestito, è un contratto di mutuo. Il mutuo è infatti quell’accordo – che può essere sia scritto che orale – con cui una persona cede in prestito a un’altra una somma di denaro. Le parti concordano una data di restituzione del prestito che può avvenire o tutta a una volta o per rate. Se insieme al capitale il mutuatario si impegna a versare anche gli interessi si parlerà di prestito fruttifero o a titolo oneroso. Viceversa, se gli accordi non prevedevamo la corresponsione di interessi, si parlerà di prestito infruttifero a titolo gratuito.

Se le parti non dicono nulla a riguardo, il prestito si considera oneroso, ossia produttivo di interessi.

Gli interessi costituiscono un reddito per il mutuante, per cui vanno indicati nella dichiarazione dei redditi. Ecco perché è bene che, se il mutuo è a titolo gratuito, ciò venga espressamente indicato per iscritto al fine di non far scattare presunzioni di onerosità, a carico del contribuente, da parte del fisco con conseguente tassazione.

Il fatto che la consegna dei soldi sia avvenuta informalmente, a mezzo “mani”, non deve far pensare di non essere in presenza di un contratto. Difatti, il mutuo si realizza anche solo con il consenso delle parti, senza bisogno di una scrittura privata: tutto ciò che è necessario per “ufficializzare” l’impegno alla restituzione è l’accettazione della somma.

Quando si tratta di importi di poche centinaia di euro si può ricorrere all’utilizzo dei contanti. Questa modalità è consentita dalla legge solo per cifre inferiori a tremila euro. Essa inoltre ha da un lato il vantaggio di essere rapida e informale, ma dall’altro non consente di dimostrare il passaggio di denaro. Con la conseguenza che, tutte le volte in cui il trasferimento dei soldi avviene “a mani”, sarà anche più difficile recuperare il credito in assenza di adempimento spontaneo e di una scrittura privata che attesti l’esistenza dell’obbligazione. Fra l’altro, nel caso in cui si dovesse finire in causa per ottenere la restituzione degli importi prestati, il giudice potrebbe escludere la prova per testimoni (ammessa, in caso di contratti, solo per cifre inferiori a 2,5 euro o quando il magistrato lo ritiene opportuno). Il fatto è, però, che nella prassi si registra molta riluttanza a mettere per iscritto, specie tra familiari, i prestiti di importo modesto. Se invece si procedesse a formalizzare il mutuo, anche in caso di consegna dei soldi in contanti non potrebbero sorgere problemi di future contestazioni. 

Il bonifico e l’assegno, dall’altro lato, hanno il vantaggio di essere dei mezzi di pagamento “tracciabili”: significa che, grazie a un estratto conto, è sempre possibile dimostrare – anche a distanza di numerosi anni – il trasferimento dei soldi da un soggetto a un altro o da un conto a un altro. Quindi, a differenza del pagamento in contanti, la prova è già ricavabile in modo indiretto e la scrittura privata con cui si formalizza il prestito non è più così necessaria.

In ogni caso, a tagliare la testa al toro è già la legge che non ammette trasferimenti in contanti, neanche a titolo di prestito o di donazione, per importi da 3mila euro in su. Quindi in tali casi sarà sempre necessario ricorrere a un bonifico o un assegno non trasferibile.

Anche in queste ipotesi, però, per come a breve si spiegherà, sarà sempre opportuno formalizzare il prestito tra familiari con una scrittura privata. E ciò perché un domani lo stesso fisco potrebbe presumere che, dietro lo scambio, vi sia stata una disposizione di pagamento per una prestazione retribuita. Il che farebbe scattare l’accertamento fiscale (tasse e sanzioni comprese).

Anche tra familiari è bene fare le cose in modo formalmente corretto. E non tanto perché non ci si fida del mutuatario ma perché, in caso di trasferimento di denaro, possono sorgere problemi di diversa natura con l’Agenzia delle Entrate. Solo tra familiari conviventi, infatti, tutti i passaggi di denaro si considerano effettuati come adempimenti degli obblighi naturali di sostegno reciproco e, perciò, non vanno giustificati. Ma quando i rapporti sono più labili, il parente è equiparato a un estraneo. Se si dovesse ricevere sul conto mille euro dal cognato o dal cugino, il fisco potrebbe sospettare che si tratta del corrispettivo per una vendita o un servizio e, pertanto, chiedere che l’importo venga dichiarato. Non dimentichiamo, peraltro, che l’Agenzia delle Entrate può conoscere in tempo reale la lista dei movimenti sul conto grazie all’anagrafe dei rapporti finanziari.

Una scrittura privata con data certa risolverà quindi ogni problema e consentirà di valersi di quella prova documentale che è condizione necessaria per difendersi da un accertamento fiscale (si ricorda che, nel processo tributario, la prova testimoniale non è ammessa).

Peraltro la scrittura privata è anche necessaria per dimostrare che il prestito non è fruttifero e che pertanto il mutuante non ha ricevuto interessi, cosa che altrimenti lo esporrebbe all’obbligo della dichiarazione dei redditi.

Per dare una data certa alla scrittura privata si può chiedere la registrazione all’Agenzia Entrate oppure si può inviare la scrittura con raccomandata a.r. all’indirizzo di una delle parti avendo cura di non aprire la busta, in modo tale che su di essa appaia il timbro del postino con la data della spedizione.

La scrittura privata è inoltre necessaria per dimostrare – sempre al Fisco – che il maggior potere di spesa del beneficiario del prestito rispetto alle sue possibilità economiche non è dipeso da un’evasione fiscale ma dal sostegno altrui. Il che lo salverà da un sicuro accertamento con redditometro. 

Non in ultimo la scrittura privata sarà anche un valido documento per chiedere, in caso di mancata restituzione delle somme date in prestito, un decreto ingiuntivo al giudice. Tale ordine di pagamento, firmato dal magistrato, consente dopo 40 giorni di recuperare le somme senza bisogno di procedere con una regolare causa.

 

 

tratto da https://www.laleggepertutti.it/215114_prestito-tra-familiari-come-fare

Come disporre i quadri?

Decidere di rinnovare casa e darle lo stile che più ci piace vuol dire predisporre gli spazi nella maniera più razionale possibile con arredamento e complementi adatti alle nostre esigenze, ma un passo fondamentale da non dimenticare è la decorazione. Anche i muri di casa possono essere decorati per riempire lo spazio rimasto vuoto e dare alla stanza un tocco personale e il modo migliore è utilizzare fotografie, poster e disegni.

I quadri spesso caratterizzano lo stile della casa, ma qual'è lo stile giusto per noi?

Per poter decidere quale effetto volete ottenere bisogna comprendere prima di tutto il proprio materiale poichè avete bisogno di sapere alla perfezione le misure per poi decidere come mixarle per un effetto ottimale.

Ci sono molti modi per disporre dei quadri o fotografie, o decidere di creare effetti senza sfruttare immagini, quadri o fotografie come semplici cornici vuote o specchi. 2f59696f5ff5734fdc6a3039b2cf3d0b

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boiserie c come disporre quadri e cornici sulla parete

http://www.claresdeli.com/quadri-in-gesso/boiserie-c-come-disporre-quadri-e-cornici-sulla-parete.html

 

Se invece decidete di creare effetti con le vostre foto/poster/arte, per non incorrere in scomodi errori, il modo migliore è prendere le misure, ritagliare delle maschere di carta (cartoncino, carta da pacco o quello che trovate più comodo) e decidere come posizionarle sulle pareti. Il metodo funziona alle perfezione e risparmi parecchie seccature.

Gli effetti che si possono ottenere sono i più disparati, che saranno anche in base alla gamma cromatica dei nostri quadri. Vediamone alcuni esempi.

 Come arredare le pareti con i quadri 3  Come arredare le pareti con i quadri 15  Come arredare le pareti con i quadri 5

http://www.inspirewetrust.com/2015/03/31/arredare-le-pareti-con-i-quadri/

quadri assemblati

http://www.comepiaceate.it/quadri-per-impreziosire-la-nostra-casa/

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https://tempolibero.pourfemme.it/articolo/10-quadri-fai-da-te-per-arredare-in-modo-originale-la-tua-casa/27781/

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http://pixiegas.com/creative-idea-arredare-con-i-quadri/

 

Queste sono solo alcune delle possibilità, ma esiste una infinità di modi per attrezzare le nostre pareti con i quadri e cornici, anche in maniera ossessiva ed esagerata come spesso fanno gli artisti nei propri studi, ma dall'effetto seducente.

VEDIAMO LO STUDIO DI MAB GRAVEs

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ANDRÉ BRETON

Andre Breton in his studio ca 1957 

http://www.historiatv.com/blogue/cabinets-des-curiosites

MARK RYDEN

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https://www.markryden.com/press/selected/artltd-july-aug-2014/index.html

 

FRIEDENSREICH HUNDERTWASSER

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tratto da http://www.inspirewetrust.com/2015/03/31/arredare-le-pareti-con-i-quadri/

 

 

In casa: rimedi contro l'umidità.

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http://www.edilportale.com/news/2018/03/normativa/ristrutturare-casa-le-detrazioni-fiscali-del-2018_63077_15.html

 

 

La ristrutturazione di casa è una buona occasione per risolvere definitivamente i problemi legati all’umidità che creano muffe e macchi nere sui muri.
 
Prima di effettuare i lavori, però, è necessario individuare le cause che hanno portato alla formazione dell’umidità  affinché il problema non si ripresenti.
La presenza di umidità e il proliferare di muffe è legato alla presenza di acqua. 

All’interno la formazione di condensa è dovuta a: scarso isolamento termico, presenza di ponti termici, scarso ricambio d’aria, scarso smaltimento dell’umidità prodotta all’interno dei locali.

 
All’esterno le cause possono essere: condizioni climatiche e ambientali, elevato grado di assorbimento d’acqua e bassa traspirabilità del rivestimento, presenza di ponti termici (zone fredde) dovuti all’uso improprio di materiali con diverse conducibilità termiche, esposizione agli agenti atmosferici senza elementi architettonici di protezione e scarsa protezione dall’umidità del terreno.

 
Se l’umidità è dovuta a infiltrazioni per precipitazioni o per la rottura di tubazioni di scarico (umidità da infiltrazioni) si presenta sotto forma di chiazze di umidità e muffe isolate sui muri e circoscritte a zone ben delimitate.
 
Nel caso di umidità da condensa, il problema si manifesta sulla superficie e/o all'interno della muratura su parti fredde della casa in cui vi sono ponti termici.
 
L’umidità di risalita si manifesta a causa dell’acqua, presente nel terreno, che viene assorbita dai muri per capillarità.

Infine, se il problema è presente anche in edifici nuovi si potrebbe trattare di umidità da costruzione, dovuta alla necessaria presenza di acqua nella preparazione dei materiali edili che non è stata fatta evaporarare dovutamente.
 

L'umidità da condensa si sviluppa soprattutto nelle zone poco areate o sulle ‘pareti fredde’ della casa in corrispondenza di ponti termici strutturali, ovvero quei punti con caratteristiche termiche molto diverse rispetto alle zone circostanti che determinano una riduzione dell’isolamento.
 
Se si tratta di umidità da risalita sarà necessario bloccare l’avanzata dell’acqua dal terreno attraverso barriere da porre alla base delle fondazioni.

Per decidere opportunamente quali lavori fare in caso di ristrutturazione è opportuno farsi consigliare da un tecnico specializzato perché le soluzioni variano a seconda dell'entità d'intervento che si vuole effettuare.
 
Per prima cosa è necessario eliminare le eventuali muffe e macchie nere già presenti in casa e successivamente intervenire con una tecnologia che possa prevenirne il ritorno del problema.
 
Inoltre, è importante assicurarsi costantemente che i muri esterni, le fondamenta, i sottotetti ecc siano isolati e ben ventilati, cercando di mantenere all’interno dell’abitazione un’umidità inferiore al 50%.
 

Per eliminare dai muri le muffe causate dall’umidità è necessario usare prodotti specifici che agiscono localmente. Solo dopo aver eliminato l’effetto prodotto dall’umidità, è possibile agire sulla causa che l’ha determinata.
 
Esistono detergenti antimuffa a base acquosa antialga e antimuffa da utilizzare per la pulizia delle superfici degradate per azione di alghe e muffe prima della verniciatura.
 
I prodotti protettivi antimuffa ostacolano la colonizzazione di muffe ed evitano l'annerimento da umidità sulle pareti interne.

A risolvere in maniera definitiva i problemi di muffa esistono pannelli antimuffa in silicato di calcio da interni da apporre sulle pareti grazie al suo elevato potere igroscopico che permette di abbassare il tasso di umidità relativa degli ambienti.

Un metodo poco invasivo per deumidificare gli ambienti può essere il ricorso a intonaci o pitture deumidificanti, che pur non risolvendo la causa del problema, possono limitarne le conseguenze. 

Sistemi più importanti sono quelli di isolamento dell’involucro con l’applicazione all’esterno della struttura di un cappotto termico, ovvero un sistema di coibentazione di facciate basato su elementi isolanti prefabbricati che vengono applicati sulla parete esterna.

Nel caso di umidità dovuta a risalita capillare si può optare, in sede di ristrutturazione, alla tecnologia dello sbarramento orizzontale attraverso la realizzazione di una barriera chimica di resine impermeabilizzanti che blocchino l’acqua. L'applicazione avviene tramite iniezione di un liquido impermeabile all’interno della parete attraverso dei fori posti in prossimità del pavimento.

In fine esiste anche la deumidificazione elettrofisica è un metodo per l'eliminazione dell'umidità da risalita che utilizza dispositivi dotati di generatori di impulsi elettromagnetici che introducono nel muro un campo elettromagnetico che entra in interazione energetica con le molecole dell’acqua e la loro struttura colloidale, contrastandone la risalita.

 

tratto da http://www.edilportale.com/news/2018/04/focus/ristrutturare-casa-i-rimedi-contro-l-umidit%C3%A0_63559_67.html

Demolizioni per ampliamento: ho diritto alle detrazioni?

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https://www.primapaginacastelvetrano.it/11-imprese-arrivate-da-ogni-parte-ditalia-per-demolire-le-case-di-triscina-ma-la-gara-salta/

 

É possibile usufruire delle detrazioni sulle ristrutturazioni per una società? Se per l'ampliamento deve avvenire una demolizione ed una ricostruzione?

A rendere inapplicabile l’agevolazione fiscale è proprio l’ampliamento dell’edificio, in quanto l’aumento della metratura e la differente consistenza dell’immobile da ricostruire, non rende più possibile parlare di ristrutturazione, bensì di “nuova costruzione”.

Il concetto di ristrutturazione edilizia è definito dall’art. 3 del Testo Unico Edilizia (D.P.R. n. 380/2001) il quale ricomprende “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.

 

Con riguardo alle agevolazioni fiscali, l’Agenzia delle Entrate si è più volte espressa nel senso di escludere anche il sisma bonus in ipotesi ampliamento dell’edificio preesistente:

“Con riguardo agli interventi di ristrutturazione edilizia ammessi al beneficio delle detrazioni fiscali del 36 e 55 per cento, ha chiarito che, nell’ipotesi di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione, la detrazione compete solo in caso di fedele ricostruzione, nel rispetto di volumetria e sagoma dell’edificio preesistente; conseguentemente, nell’ipotesi di demolizione e ricostruzione con ampliamento, la detrazione non spetta in quanto l’intervento si considera, nel suo complesso, una “nuova costruzione” (Circolare n. 36/E 2007 e n. 4/E 2011).

Sempre l’Agenzia delle Entrate, nella Guida alle agevolazioni fiscali in materia di ristrutturazioni del 2017, ha specificato che

“Per la demolizione e ricostruzione con ampliamento, la detrazione non spetta in quanto l’intervento si considera, nel suo complesso, una “nuova costruzione; se la ristrutturazione avviene senza demolire l’edificio esistente e con ampliamento dello stesso, la detrazione spetta solo per le spese riguardanti la parte esistente in quanto l’ampliamento configura, comunque, una “nuova costruzione. Questi stessi criteri si applicano anche agli interventi di ampliamento previsti in attuazione del cosiddetto Piano Casa (Ris. Agenzia delle Entrate n. 4/E del 2011)”.

L’Agenzia fa dunque esplicito riferimento anche gli interventi di ristrutturazione nell’ambito del Piano Casa.

Stante quanto precede, salvo eventuali nuovi orientamenti futuri dell’Agenzia delle Entrate, ad oggi l’ampliamento dell’edificio preesistente preclude l’accesso alle agevolazioni, facendo ricondurre l’intervento a “nuova costruzione” e non a “ristrutturazione”.

 

tratto da https://www.laleggepertutti.it/212141_ristrutturazione-e-ampliamento-edificio-e-possibile-la-detrazione-al-50

Come difendersi da una bolletta salata?

bolletta salata

https://www.ilgiorno.it/sondrio/cronaca/bollette-costi-acqua-1.1916139

 

 

Come difendersi da una bolletta salata?

Cosa prevede la legge?

Fin dove si può spingere la compagnia della luce, del gas, del telefono e dell’acqua?

 

Quando arriva una bolletta esagerata, che ritieni incompatibile coi tuoi consumi, la prima cosa che devi fare è inoltrare un reclamo scritto al fornitore. Potrai richiedere una revisione dei conteggi così come un controllo a casa della corretta funzionalità del contatore medesimo. Se non ti viene data risposta o se la risposta non ti soddisfa, dovrai necessariamente attivare una conciliazione obbligatoria presso l’Autorità Garante.

La richiesta va inoltrate entro:

 

  • 1 anno in caso di risposta negativa o insoddisfacente;
  • 50 giorni in caso di mancata risposta.

 

La procedura (cosiddetto tentativo obbligatorio di conciliazione) è volta a trovare un accordo tra te e la compagnia prima di poter agire in tribunale. Senza questa fase non puoi rivolgerti al giudice. Ma nello stesso tempo, una volta che hai aperto la procedura di reclamo, la compagnia non ti può staccare la luce, il gas o l’acqua.

La domanda conciliazione si presenta online e l’incontro può avvenire anche telematicamente con videoconferenza su Skype. La procedura di conciliazione, che è completamente gratuita; dovrà concludersi entro 90 giorni.

Se il primo incontro si conclude senza che le parti abbiano trovato un’intesa, l’utente potrà presentare il ricorso al giudice. Se la società elettrica non si presenta alla mediazione subirà dei procedimenti sanzionatori.

 

Nella bolletta il fornitore deve indicare la data d’emissione e il termine entro cui effettuare il pagamento, che non può essere inferiore a 20 giorni dalla data d’emissione.

L’utente, nei casi previsti dalle condizioni di contratto, può chiedere di rateizzare il pagamento e la bolletta deve indicare le modalità per ottenerla.

Se l’utente paga la bolletta dopo la scadenza indicata, il fornitore può richiedere, oltre a quanto dovuto, il pagamento di interessi di mora calcolati su base annua e pari al tasso ufficiale di riferimento aumentato del 3,5%.

L’esercente può richiedere il pagamento delle spese postali relative al sollecito di pagamento della bolletta. Non è in ogni caso ammessa la richiesta di risarcimento di eventuali danni ulteriori.

 

Se l’utente non paga la bolletta, il fornitore non può staccare la luce dall’oggi al domani, ma deve prima mandare un sollecito di pagamento con raccomandata a/r (di solito preceduta da lettere semplici e/o da telefonate del call center) e, successivamente, provvedere a un calo della tensione per mettere “in guardia” l’utente.

Come detto, se l’utente ha attivato la procedura di reclamo, non può avvenire il distacco della luce. L’utente che vuole richiedere la riattivazione della fornitura sospesa, deve pagare gli importi non pagati e comunicare ciò al fornitore.

Il fornitore può sospendere l’utenza senza preavviso solo in due casi:

  1. per cause oggettive di pericolo;

  2. per appropriazione fraudolenta di energia elettrica.

Dal 1° gennaio 2018, le bollette ordinarie e i conguagli delle utenze di luce, acqua e gas si prescrivono in due anni. Questo vuol dire che la compagnia ti può chiedere solo gli arretrati degli ultimi 24 mesi e non oltre. Ad esempio, se nel 2019 ricevi un conguaglio del 2016 non sei tenuto a pagarlo. 

Questa regola riguarda sia i consumatori che le imprese.

Ci sono quindi tre anni in meno per le società fornitrici – e soprattutto per i loro call center – per recuperare i crediti.

Altra conseguenza è che l’utente non deve più conservare le bollette pagate per cinque anni, ma solo per due. Se l’utente ha la domiciliazione bancaria non è neanche costretto a conservare le bollette, potendo dimostrare il pagamento tramite un estratto conto che è una prova sufficiente.

Queste regole non valgono per la bolletta del telefono, che continua a prescriversi in 5 anni, termine durante il quale l’utente deve conservare le ricevute di pagamento.

Per quanto riguarda la bolletta della luce, tuttavia, non bisogna dimenticare che le prime dieci dell’anno contengono anche la prova del pagamento del canone Rai; ora, siccome l’abbonamento tv si prescrive in 10 anni, sarà bene che queste bollette siano conservate per un decennio.

 

Spesso si procede alla lettura dei contatori sulla base dei consumi stimati: ciò succede quando l’utente non effettua l’autolettura o quando il delegato della compagnia non riesce a fare (o non esegue) la lettura del contatore. Secondo numerosi giudici, l’utente può contestare la bolletta esosa se la lettura del contatore – necessaria per il conguaglio con gli effetti consumi – non viene eseguita almeno una volta all’anno. Questa tesi però non è condivisa da tutti e di recente la Cassazione ha sposato l’interpretazione contraria per quanto riguarda i nuovi contatori elettronici in grado di comunicare direttamente alla compagnia i consumi effettivi.

C’è però che, sul versante della prova processuale, non potendo l’utente dimostrare che la bolletta è errata – non avendo accesso agli strumenti tecnici di controllo e di calcolo della compagnia – può utilizzare qualsiasi prova, anche gli indizi (cosiddette “presunzioni”). Ad esempio, dimostrando che una abitazione è stata disabitata per gran parte dell’anno potrà far annullare la bolletta che riporta un consumo esagerato.

 

La compagnia può apportare modifiche unilaterali al contratto di utenza, ma deve comunicarlo tre mesi prima all’utente. Il quale ha diritto di recedere senza alcun onere.

Se l’utente ritiene che il contatore non funzioni regolarmente può chiedere al fornitore un controllo. Se viene accertato il difetto di funzionamento, il fornitore deve ricostruire i consumi registrati erroneamente.

La ricostruzione dei consumi deve avere come periodo di riferimento l’intervallo di tempo compreso tra il momento in cui si è verificato il guasto o la rottura del gruppo di misura, se determinabile con certezza, ed il momento in cui l’esercente provvede alla sostituzione o riparazione del gruppo di misura medesimo. L’utente può contestare i risultati della ricostruzione dei consumi, entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione scritta dei risultati, presentando proprie osservazioni scritte, adeguatamente documentate.

 

La lettura del contatore del gas deve avvenire secondo cadenze prestabilite:

 

  • per gli utenti con consumi annui standard fino a 500 metri cubi: almeno una volta ogni anno, con un intervallo massimo di 13 mesi e minimo di 6 mesi fra due tentativi consecutivi;
  • per gli utenti con consumi annui standard da 501 a 5.000 metri cubi: almeno 2 volte l’anno, con un intervallo massimo di 7 mesi e minimo di 3 mesi fra due tentativi consecutivi;
  • per gli utenti con consumi annui standard superiori a 5.000 metri cubi: una volta al mese.

 

Per le nuove forniture, la prima lettura deve avvenire entro 6 mesi dall’attivazione.

In caso di mancata lettura del contatore si procede con l’autolettura dell’utente o, in assenza di comunicazioni, secondo consumi stimati. Il pagamento in base al consumo stimato è considerato in acconto ed è dunque fatto salvo il conguaglio (a credito o a debito dell’utente).

Se l’utente ritiene che il contatore non funzioni regolarmente, deve richiedere un controllo al fornitore, che deve a sua volta trasmettere la richiesta al distributore entro 2 giorni lavorativi.

Per quanto riguarda invece la lettura del contatore dell’acqua, di solito devono avvenire almeno una volta all’anno (a seconda dei regolamenti delle aziende fornitrici) ed è eseguita da addetti del fornitore o da personale incaricato dallo stesso.

Quando non è possibile eseguire la lettura, il personale lascia nella cassetta della posta apposita cartolina per l’autolettura.

Spesso è previsto che se non perviene l’autolettura, il fornitore determina il consumo di acqua in misura eguale a quello del corrispondente periodo dell’anno precedente oppure, in mancanza di dati, sulla base della media dei consumi dei periodi più prossimi a quelli di mancata lettura, salvo conguaglio.

 

fonte https://www.laleggepertutti.it/207424_bolletta-8-regole-da-sapere

Controlli alla caldaia: chi paga?

caldaiemanutenzione truffa

http://www.parmareport.it/caldaie-chiarimenti-federconsumatori/

 

Con la caldaia non si scherza. È prima di tutto una questione di sicurezza. E poi di efficienza energetica, quindi di rispetto ambientale e di risparmio economico. Motivo per cui l’installazione, la manutenzione, il controllo dell’efficienza vengono regolamentati per legge.

Un promemoria in più da aggiungere sul nostro frigorifero pieno di bigliettini colorati di scadenze da ricordare. E sono soldi da spendere ogni volta che il tecnico varca la soglia di casa con i suoi attrezzi da revisione e sua la penna in mano, pronta a compilare, terminato l’intervento, il libretto d’impianto.

Ma se non siamo noi i proprietari di casa? Se siamo solo affittuari, dobbiamo tirar fuori noi i soldi? Per la manutenzione e il libretto della caldaia, chi paga? Vediamo qualche risposta.

 

Se qualcuno viene a dirti che il controllo annuale della caldaia è obbligatorio per legge, tu rispondigli che si sbaglia. Non sei affatto obbligato a far venire il tecnico ogni anno per fare i controlli (certo se lo fai è tutta sicurezza guadagnata), ma devi comunque rispettare una certa periodicità. Questa varia in base al tipo di impianto installato a casa tua (o nella casa in cui abiti) e ti viene comunicata dalla ditta installatrice. È comunque riportata sul libretto di impianto, che ci dice con quale periodicità eseguire i controlli. In mancanza di indicazioni, c’è sempre la legge (Allegato A del Dpr n. 74 del 2013) a ricordarci con che frequenza dobbiamo provvedere a far controllare la nostra caldaia.

 

Quando diciamo controllo della caldaia, intendiamo il controllo dei fumi di combustione (per intenderci quello che veglia sull’efficienza energetica della nostra caldaia, e quindi sulla salvaguardia del nostro portafoglio e dell’ambiente). Ecco con che frequentava effettuato:

 

  • ogni 2 anni, per le caldaie alimentate a combustibile liquido o solido, di potenza termica compresa fra 10 e 100 kW;
  • ogni anno, per le caldaie alimentate a combustibile liquido o solido, di potenza termica superiore a 100 kW;
  • ogni 4 anni, per le caldaie alimentate a gas, metano o gpl, di potenza termica compresa fra 10 e 100 kW;
  • ogni 2 anni, per le caldaie alimentate a gas, metano o gpl, di potenza termica superiore a 100 kW.

 

Oltre queste scadenze, ogni volta che sostituiamo un impianto, eseguiamo una prima accensione o modifichiamo l’efficienza energetica, siamo comunque obbligati a fare il controllo. 

In sostanza quindi: sì, il controllo periodico della caldaia è obbligatorio e importante, ma non sempre in modo annuale.

 

Quando parliamo di controlli, parliamo del controllo dei fumi, quello che regola l’efficienza energetica del nostro impianto. In pratica si analizza la combustione per verificarne il rendimento e la concentrazione del monossido di carbonio, e quindi il livello di fumosità.

Quando parliamo di manutenzione invece ci riferiamo alla più generale verifica sul funzionamento dell’impianto, sulla pulizia del bruciatore e sullo scambiatore di calore. Anche se il controllo annuale non è obbligatorio, una buona manutenzione rende il tuo impianto più sicuro e ti fa risparmiare. È quindi consigliabile fare una manutenzione una volta l’anno.

 

L’insieme di queste due premure, renderà la tua caldaia, e quindi casa tua decisamente più sicura, riducendo il rischio di perdite di gas, di incendi del combustibile e altre tipologie di incidenti domestici. Inoltre ottimizzi il risparmio energetico.

Per legge il controllo della caldaia viene effettuato da ditte specializzate, che hanno determinati requisiti richiesti per legge (D.M. n. 37/08 del 22 gennaio 2008). Sono in pratica ditte abilitate. A loro dovrai rivolgerti per un controllo fumi conforme alla legge.

Il tecnico che arriverà a casa tua, procederà al controllo e alla manutenzione, compilerà il famoso libretto della caldaia e ti rilascerà il certificato di conformità, consegnandoti il rapporto di manutenzione e controllo, con l’esito del controllo dei fumi.

 

Se sei il proprietario di una casa la risposta è presto detta. Ma se la casa non è tua e tu sei solo l’inquilino in affitto, a chi spetta e chi paga il controllo periodico della caldaia?

 

Non pensare di svignartela solo perché non è casa tua. Le spese e la responsabilità della manutenzione e del controllo della caldaia spettano per legge al responsabile dell’impianto (Art. 6 Dpr n. 74/16 del 16 aprile 2016) : quindi al proprietario che abita in una casa di proprietà e all’inquilino in una casa presa in affitto (o al comodatario).

Quindi se abiti in una casa presa in affitto sarai tu a dovertene occupare. E devi anche occuparti di chiamare il tecnico manutentore. Questo perché rientra tra le spese di manutenzione ordinaria dell’impianto (che spettano a chi occupa l’appartamento).

Diverso sarebbe se dovessi sostituire completamente la caldaia, effettuare una manutenzione straordinaria o installarla. In questi casi spetta al proprietario di casa farlo a sue spese, perché sono interventi straordinari.

Innanzitutto non si devono sentire coinvolti da questa domanda solo quelli che come impianto hanno la tradizionale caldaia, perché dal 2016 qualunque impianto termico, installato in una casa o in un edificio (caldaia, climatizzatore, pannelli solari, ecc), deve possedere il suo libretto d’impianto (D.M. 10 febbraio 2014.): un documento unificato per tutti, all’interno del quale sono presenti 14 schede da compilare in base agli interventi di controllo e manutenzione che vengono effettuati sul proprio impianto.

 

Questo nuovo libretto sostituisce a tutti gli effetti quello vecchio che – attenzione – non è da buttare, ma da affiancare a quello nuovo. È una sorta di documento d’identità del vostro impianto termico. Ecco perché conterrà tutte le informazioni utili (sostituzioni, manutenzioni, controllo dell’efficienza energetica) a chi verrà eventualmente a fare ispezioni.

Il libretto della caldaia è assolutamente obbligatorio. Anzi, attenzione a non perderlo, perché questo è l’unico modo per accertare che tu sia effettivamente in regola con tutte le questioni riguardanti il tuo impianto di riscaldamento. Manutenzione e controllo compresi.

In caso di installazione di una nuova caldaia, il libretto ti sarà fornito direttamente dall’installatore. Se invece la caldaia è già installata, sarà il responsabile dell’impianto (quindi tu) a dover procurarsi il nuovo libretto d’impianto: in autonomia oppure chiedendo al manutentore.

 

Non gettare nel cestino il vecchio libretto e i vecchi documenti relativi ai precedenti controlli delle caldaie. Allegali piuttosto al nuovo libretto d’impianto.

Ci sono diversi modi per procurarsi il libretto della caldaia:

 

  • nel caso di nuovo installazione, ti sarà rilasciato direttamente dall’installatore;
  • se hai già la caldaia installata dovrai essere tu (in quanto responsabile dell’impianto) a procurarti il libretto da tenere in casa: puoi farlo scaricandolo dal sito del Ministero dello sviluppo economico (Mise), oppure chiedendolo al tuo manutentore, che in occasione del primo controllo te lo porterà a casa, compilandolo nelle apposite schede riferite al tuo specifico impianto;
  • puoi inoltre compilare il libretto della caldaia direttamente online (solo in riferimento alle schede pertinenti al tuo impianto) sul sito del Comitato Termotecnico Italiano (Cti). Dopo la compilazione dovrai però stamparlo e custodirlo in casa, pronto a esibirlo in caso di ispezioni.

 

Ma tutta questa trafila ha un costo? Chi paga per il libretto della caldaia?

 

Diciamo che puoi tranquillamente scaricare il libretto in modo gratuito dai siti del Mise e del Cti. E in linea teorica devi essere tu, in quanto responsabile dell’impianto, a compilarlo nelle schede pertinenti.

In alternativa, le ditte installatrici e manutentrici che effettuano i controlli delle caldaie offrono questo servizio: cioè su richiesta tua ti portano a casa il libretto e te lo compilano dopo ogni intervento. Essendo un servizio offerto, ti chiederanno di pagarlo. Sulla cifra da pagare dipende dalla ditta. Ti possono essere chiesti 15 euro come anche 50 euro (ovviamente in aggiunta all’intervento di manutenzione).

Chi paga? 

Ovviamente a pagare questo servizio di compilazione è il responsabile dell’impianto: il proprietario di casa se ci vive oppure l’inquilino in affitto o il comodatario. Se quindi sei in affitto o sei in comodato d’uso, sarai tu a doverti occupare di pagare i controlli e la manutenzione ordinaria dell’impianto.

 

Se però hai appena stipulato un contratto d’affitto, il proprietario di casa ha l’obbligo di consegnarti già le carte in regola: quindi gli ultimi controlli effettuati e il libretto della caldaia compilato fino ad allora. Quindi appena entri in un appartamento in affitto il libretto dovrà dartelo il conduttore. Dopodiché sarai tu a sobbarcarti le spese ordinarie successive (controlli e compilazione).

Quindi:

 

  • sei in affitto e ti installano la caldaia nuova: il proprietario di casa sosterrà il costo della caldaia, dell’installazione, fornitura libretto compresa;
  • sei in affitto da tempo: tu inquilino sosterrai le spese ordinarie di controllo e manutenzione con relativa compilazione del libretto;
  • casa è tua e ci vivi tu: ovviamente sarai tu a doverti occupare di tutto. A meno che tu non abiti in condominio e ci sia un impianto centralizzato (in quel caso la compilazione della caldaia centralizzata spetta di norma all’amministratore e le spese per la manutenzione ordinaria spettano ai condomini).

Assodata l’importanza del libretto caldaia e del non perderlo per nessun motivo (essendo la carta d’identità da esibire nel caso di ispezioni), aggiungiamo che l’obbligo di custodire gelosamente questo documento ricade sul responsabile dell’impianto: proprietario di casa o terzo delegato (inquilino o comodatario); amministratore di condominio.

 

 

fonte https://www.laleggepertutti.it/198335_libretto-caldaia-chi-paga

 

Esiste la tassa sui condizionatori?

climatizzatore100

http://germo.it/come-sanificare-il-climatizzatore/

 

Finalmente arriva l'estate e si attende con ansia l’attimo in cui la nostra pelle passerà dal color pallido al marroncino. Dobbiamo però fare i conti con il rovescio della medaglia: un caldo torrido difficilmente sopportabile in alcuni giorni, che ci fa lavorare male e dormire ancora peggio. Ecco allora che scatta la corsa sfrenata all’acquisto dei condizionatori

Cerchiamo di destreggiarci tra mille domande – quanti split serviranno? Consumeranno molto? Dobbiamo pagarci sopra l’ennesima tassa svuota tasche? Mentre ci arrovelliamo il cervello però siamo già in macchina, pronti per schizzare tra gli scaffali dei negozi di tecnologia per accaparrarci l’impianto che ci salverà dal solleone. 

Visto che non costano poco, e che dobbiamo anche pagare l’installazione, cerchiamo di capire: ci sono tasse sui condizionatori?

Innanzitutto, una volta acquistati, il passo successivo è quello che contattare una ditta di installazione certificata (a meno che non lo acquistiamo direttamente tramite la ditta stessa). 

È assolutamente vietato installare l’impianto in modo autonomo. Addirittura, se scegliamo di acquistare il nostro condizionatore in negozi di tecnologia e normali rivenditori, in teoria dovremmo recarci sul luogo dell’acquisto con i nominativi dell’operatore specializzato e abilitato che ce lo installerà a casa. Questa persona, una volta terminata l’installazione ci rilascerà una dichiarazione di certificazione, che dobbiamo conservare. 

È sufficiente chiamare una ditta abilitata e il gioco è fatto. Per i condizionatori domestici in linea generale non dobbiamo neanche chiedere specifiche autorizzazioni, perché la loro installazione rientra tra gli interventi di manutenzione ordinaria (a meno che non esistano particolari vincoli storici o paesaggistici).

Una volta acquistato e installato il nostro condizionatore, è ovviamente indispensabile controllarne il corretto funzionamento, magari effettuando un controllo a inizio stagione sui filtri e sul motore, per rimetterlo a nuovo e migliorarne l’efficienza energetica – oltre che la sicurezza – in vista dei torridi mesi estivi, quando presumibilmente lo useremo senza ritegno.

Non solo. Dal 2014, una norma (D.p.r. n. 74/13 del 16 aprile 2013) ha reso obbligatori i controlli e la manutenzione sugli impianti termici, tra cui sia caldaie e normali impianti di riscaldamento  sia condizionatori.

Attenzione però. Il controllo non è obbligatorio su tutti i condizionatori. Ma solo su quelli con una potenza superiore a 12 kilowatt. In pratica, di norma quelli di uso domestico restano fuori da questa incombenza. 

Vi rientrano quelli installati nelle aziende, che superano questa potenza.

Ci avviciniamo alla domanda che ci interessa – se ci siano tasse sui condizionatori – analizzando cosa sia il famoso bollino blu e se effettivamente sia obbligatorio per chi possiede dei condizionatori in casa. 

Tornando alla norma entrata in vigore nel 2014, questa ha reso obbligatori i controlli sull’efficienza energetica su tutti gli impianti termici utilizzati per il riscaldamento invernale e la climatizzazione estiva. In pratica su caldaie e condizionatori. Effettuare questi controlli significa ottenere, da parte della ditta che viene a casa nostra ad effettuare questa operazione, un bollino blu. Questo certifica che il nostro impianto è ok.

Significa che dobbiamo preoccuparci di apporre questo bollino blu sul nostro condizionatore di casa? Di norma no, e c’è un motivo preciso. La legge in questione obbliga questi controlli periodici per il bollino solo su alcuni tipi di condizionatori: quelli con una potenza termica maggiore di 12 kilowatt. Una potenza simile di solito è riservata ai condizionatori installati nei grandi spazi, quelli delle aziende.

Per capire meglio,  un normale condizionatore monosplit che installiamo in casa arriva di norma a 3,5 kilowatt, quindi non necessita di questo controllo e del relativo bollino blu. Ma se abbiamo un appartamento enorme e optiamo per un condizionatore di grossa potenza (superiore a 12 kilowatt) questo bollino blu dobbiamo metterlo. E quindi dobbiamo periodicamente (ogni 2 o 4 anni) chiamare la ditta, prenotando l’operazione di manutenzione e controllo del’efficienza termica. Controllo che poi dovrà essere trasmesso al catasto regionale degli impianti termici.

All’inizio dell’articolo ci chiedevamo se ci siano tasse sui condizionatori. La risposta è no. Almeno non nel senso stretto del termine.

Non se per tassa intendiamo la classica imposta che siamo abituati a pagare ormai per tutto. Non esiste una legge che abbia introdotto un tot di euro da pagare per il solo fatto di possedere un condizionatore in casa. Non esiste alcuna tassa sull’aria condizionata.

 

Gli unici esborsi economici – se li vogliamo intendere come tassa – che dobbiamo eventualmente affrontare sono quelli:

 

del libretto d’impianto per la climatizzazione (come quello delle caldaie). E questo è un obbligo che vale sia per i condizionatori con potenza superiore a 12 kw sia per quelli con potenza minima (Decreto 10 febbraio 2014.)Almeno è così nella maggior parte delle regioni italiane;

  • dell’operazione di controllo sull’impianto e del bollino blu che ci verrà rilasciato. Questo, ribadiamolo, solo se in casa nostra (o nella nostra azienda) abbiamo installato un mega condizionatore con potenza termica superiore a 12 kilowatt. Altrimenti niente bollino.

 

Tutti gli impianti termici (caldaie e condizionatori) devono avere il libretto di impianto. Il responsabile dell’impianto è tenuto a custodirlo e conservarlo, per metterlo a disposizione di eventuali ispezioni. E a seconda della potenza del condizionatore, il responsabile è obbligato a effettuare il controllo periodico. Ma chi è questo responsabile dell’impianto?

 

Per gli impianti termici centralizzati è di solito l’amministratore;

  • per impianti autonomi è il proprietario di casa;
  • per gli impianti autonomi in case affittate è l’inquilino.

 

 

tratto da https://www.laleggepertutti.it/202380_ci-sono-tasse-sui-condizionatori

Lavabo bagno e appoggio: perché non sbizzarrirsi?

Un lavabo da bagno può essere sia poggiato che incassato. Nel caso del lavabo d’appoggio, esso deve essere necessariamente poggiato su una superficie in grado di sostenere il peso ed essere impermeabile. Questo significa che scegliendo un lavabo da appoggio bisognerà calcolare anche lo spazio e l'ingombro generato dal mobile bagno per lavabo da appoggio, dal piano oppure dalla mensola per lavabo da appoggio. Anche quello incassato ovviamente ha le sue esigenze, ovvero superfici impermeabili che fungeranno da cornice al lavabo incassato ed ovviamente un legame con la parete nel caso in cui sia fissato in sospensione o un adatto incollaggio alla lastra sovrastante od un appoggio adeguato sottostante. 

Ad ogni modo, scegliere un lavabo d’appoggio sembra rivelarsi la scelta più adeguata se hai realizzato un ambiente dal design moderno e desideri un elemento d'arredo funzionale e dall'impatto estetico immediato.

Il mondo del Design spazia tantissimo e possiamo davvero personalizzare in maniera particolare e congeniale alle nostre case e magari anche in base al materiale a nostra disposizione.

Guardiamo assieme alcune soluzioni molto in voga

Piano di appoggio per una lavabo costituito da una vaschetta in pietra

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https://www.nuovimondi.com/lavabi-in-pietra-da-bagno/

 

Lavabo moderno di varie forme poggiato sul piano o sospeso

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http://jodeninc.com/bagni-lavabo/bagni-lavabo-bagno-795452-300x252/
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Ma potreste optare anche per qualcosa di diverso, magare per il riciclo ... Poniamo il caso che abbiate delle vecchie toilette, tavoli, bici, basi in ferro vecchie di macchine da cucire, pedane e tanti altri supporti.. cosa potrebbe succedere?

 

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bagno materaili recupero

https://www.designandmore.it/idee-per-arredare-bagno-fai-da-te/

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In bagno

https://www.grazia.it/casa/design/idee-utilizzare-vecchio-tavolo-in-legno

mobile da bagno 29

https://www.portedelpassato.com/categoria/mobili-da-bagno/

sintesibagno verbania lavabo doppio appoggio rubinetteria tratto lavavao a muro 01

http://sintesibagno.net/works-bagno-provenzale

 

Questi sono solo alcuni degli ottimi risultati raggiunti con l'ingegno ed il riciclo. Ricercate tra le vostre cianfrusaglie e chissà che non ne esca qualcosa da poter riutilizzare in qualche angolo della casa!

 

 

 

 

Un terreno agricolo può essere usato per camping e b&b?

Campeggi invernali austria

https://www.emotionrit.it/2016/11/austria-dove-andare-in-campeggio-in-inverno.html

 

È possibile che un terreno agricolo (non edificabile) si possa utilizzare come camping o come bed and breakfast o affitta camere (ad esempio utilizzando delle casette con ruote)? 

Per poter posizionare su un terreno non edificabile delle casette con ruote, o delle roulottes, destinate a un’attività ricettiva, è necessario che il terreno sia, innanzitutto, a destinazione turistica. 

Se le casette risultano fissate al suolo, l’ancoraggio non deve risultare definitivo, né stagionale, ma soltanto temporaneo: la normativa (Art.41, Co.4, DL. 47/2014, che integra il Testo Unico Edilizia, L.380/2001) prescrive infatti che l’installazione debba essere occasionale, pertanto con un ancoraggio stagionale, quindi ciclico, verrebbe meno il requisito dell’occasionalità. È possibile anche l’allaccio alle reti (idrica, elettrica, etc.), se non effettuato in modo permanente. 

È inoltre fondamentale il requisito della destinazione turistica del terreno o della struttura entro cui è effettuata l’installazione: se dovesse venir meno tale requisito, il proprietario è obbligato alla rimozione immediata della casa mobile, del camper o della roulotte eventualmente ancorati al suolo. 

In pratica, il permesso di costruire, relativamente a case mobili, camper e roulotte, non occorre soltanto se si verificano le seguenti condizioni: 

– il manufatto prefabbricato, o la roulotte, deve essere collocato su ruote ed essere omologato al trasporto su strada, non essendo sufficiente la mera collocazione su un supporto mobile che non permetta il trasporto; 

– il manufatto deve soddisfare necessità puramente transitorie; 

– il manufatto può essere immediatamente rimosso e trasferito altrove (non deve dunque risultare ancorato). 

Queste condizioni sono soddisfatte nell’ipotesi della casa mobile sistemata su telaio poggiante su ruote gommate, bilanciate da supporti di ferro (dunque deve trattarsi di un manufatto realmente trasportabile su strada), non allacciata alle reti della distribuzione della corrente elettrica e dell’acqua potabile. 

Per quanto riguarda l’ancoraggio al suolo, in assenza di permesso di costruire, è consentito, ma soltanto in via transitoria, per le installazioni posizionate all’interno di strutture ricettive, all’aperto, utilizzate per la sosta e il soggiorno di turisti. La collocazione delle installazioni (casette, roulotte, bungalow…) deve essere effettuata in conformità alle leggi regionali. 

La legge non specifica sul requisito dell’occasionalità dell’installazione: la sentenza 57/2016 del Tar del Veneto, una delle pochissime che si pronuncia sull’argomento, stabilisce che il requisito della temporaneità dell’installazione viene meno se sono superati i 90 giorni. 

Nulla è precisato, inoltre, sulla distanza prescritta per lo spostamento del manufatto mobile. 

Veniamo ora alle autorizzazioni necessarie per aprire una struttura ricettiva all’aperto, in pratica un campeggio. 

Le aperture dei campeggi sono disciplinate da norme regionali emanate in conformità alla Legge quadro sul turismo n. 135/2001. 

In particolare, per quanto concerne:  

– le autorizzazioni comunali: bisogna ottenere dal Comune l’autorizzazione per la conversione del terreno in piazzola per campeggiatori, quindi per l’apertura di un complesso turistico all’aperto (se e dove consentito dal piano regolatore); la domanda deve essere corredata da una serie di documenti elencati dalla legge regionale di Disciplina dei complessi ricettivi all’aperto; in questo caso vige la regola del silenzio-assenso: se entro 60 giorni non si ha riscontro, la domanda e il relativo progetto si intendono approvati; se sono previste nuove costruzioni, tra le quali, come si è visto, rientrano anche le installazioni mobili con allacci non occasionali, serve la concessione edilizia comunale; dopo che il Sindaco si è pronunciato sulla domanda di concessione per l’allestimento deve essere presentata sempre al Comune una domanda di autorizzazione per l’esercizio corredata anch’essa da alcuni documenti previsti dalla specifica legge regionale. 

– le autorizzazioni sanitarie e regionali (Asl e Regione): bisogna poi rivolgersi all’Asl per l’agibilità sanitaria su servizi igienici, ristorazione e spazi comuni, e alla Regione per la valutazione di impatto ambientale; 

– il registro delle imprese: è obbligatorio iscriversi al registro delle imprese, nella sezione speciale per le imprese turistiche, e fare l’assicurazione per responsabilità civile e furto; 

– antincendio e sicurezza: nei campeggi più grandi, servono apposite autorizzazioni e collaudo dei Vigili del fuoco; inoltre, se si hanno dipendenti, è anche necessario il documento di valutazione dei rischi e lo svolgimento dei corsi di formazione per i lavoratori; 

– altri adempimenti necessari: come per tutte le attività, inoltre, sono necessarie partita Iva, iscrizione in Camera di Commercio, Inps, Inail, denuncia per la tassa sui rifiuti. Una volta avviata l’attività, il titolare (o un rappresentante) della struttura dovrà assicurare una custodia continua del campeggio e quindi essere presente e vigilare sulla struttura turistico ricettiva, senza mai lasciare gli ospiti da soli. 

Il titolare ha inoltre l’obbligo di comunicare le tariffe entro il 1° ottobre di ogni anno all’Agenzia Turistica Locale ed entro il 1° gennaio di ogni anno, anche al Comune. Entro il primo marzo di ogni anno è possibile effettuare delle modifiche ai prezzi che saranno applicate nel secondo semestre fino al 31 dicembre. Il titolare ha l’obbligo di esporre le tariffe vigenti su cartelli (per esempio dietro la porta della reception, dietro la porta dei bungalow o degli chalet.). 

Per chi possiede un’azienda agricola, la maggior parte delle leggi regionali consente di ospitare nello spazio circostante l’azienda agricola un minimo di 3 tende o caravan. 

Il Comune in relazione alle esigenze locali e in alternativa ai posti letto può consentire l’elevazione del numero di tende o caravan fino a un massimo di 10 per non più di 30 persone, previa verifica che l’azienda agricola abbia un’estensione territoriale e caratteristiche adeguate per ospitarle. Devono ovviamente essere garantiti ai turisti servizi igienico-sanitari e la fornitura d’acqua mediante le strutture ordinarie dell’azienda agricola. 

Per gli insediamenti superiori a 3 tende o caravan deve essere garantito mediante strutture apposite il rispetto dei parametri minimi dei requisiti igienico-sanitari previsti per i campeggi dalla legge regionale applicabile. 

 

 

fonte https://www.laleggepertutti.it/209025_terreno-agricolo-puo-essere-usato-per-camping-e-bed-and-breakfast

Il certificato di residenza che valore ha?

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Poniamo il caso che da alcuni mesi hai cambiato casa. Hai lasciato la vecchia dimora dove vivevi con tuo padre e tua madre per andare a vivere altrove. Ti sei infatti sposato e hai preso in affitto una abitazione insieme a tua moglie. Succede però che un giorno arriva una multa all’indirizzo vecchio, quello dei tuoi genitori. Tua madre, per farti un piacere, prende la raccomandata qualificandosi come “familiare convivente”. Il postino, che la conosce ormai da anni ma che ancora non sa del tuo trasferimento, le consegna la raccomandata, fidandosi ciecamente delle sue dichiarazioni e del fatto che te la consegnerà. Senonché questa multa viene distrattamente abbandonata tra la pubblicità. Dopo un po’ ricevi un sollecito di pagamento e, venendo solo allora a sapere della contravvenzione, ne contesti la validità. Sostieni che la notifica fatta al vecchio indirizzo non ha valore. Come prova depositi un certificato di residenza. Il giudice però ti dà torto. Sostiene che le risultanze anagrafiche non bastano. Meravigliato di ciò ti chiedi che valore ha il certificato di residenza: trattandosi infatti di un atto pubblico, proveniente cioè dall’amministrazione locale, eri convinto che avesse un valore legale superiore alle dichiarazioni fornite al postino.

Ti sembrerà forse strano, ma la Cassazione, in un caso del genere, ti darebbe torto. A confermarlo è una ordinanza (Cass. ord. n. 14361/18.).

Come mai?

La notifica fatta a un indirizzo diverso da quello di residenza e consegnata nelle mani di un soggetto che non è un familiare convivente si considera nulla.

Non ha valore e, quindi, per legge il destinatario non può esserne mai venuto a conoscenza. Diverso però è il discorso se chi riceve la raccomandata si qualifica, al postino, come “familiare convivente”. In tal caso, il giudice può fare a meno di accertare se il luogo ove è avvenuta la consegna della busta è il luogo di residenza, di domicilio o di dimora del destinatario. Bastano infatti le dichiarazioni fornite al postino e da questi attestate nell’avviso di ricevimento che, essendo un atto formato da un pubblico ufficiale, fa piena prova.

Contro questa attestazione, però, è sempre ammessa la prova contraria:

l’effettivo destinatario della notifica può cioè dimostrare che né la propria residenza, né il domicilio, né la dimora coincidono con il luogo ove si è recato il postino.

Come potrà fornire però questa prova?

Qui sta l’importanza della pronuncia in commento, non certo con il certificato di residenza rilasciato dal Comune il quale, benché indichi un indirizzo differente, ha un semplice valore presuntivo, valore che non vale quindi a sconfessare quanto dichiarato dal postino.

 
In pratica, tra le risultanze anagrafiche e l’attestazione del postino prevale quest’ultima.

Come si fa dunque, se magari qualcuno per farmi un dispetto, dichiara di essere un familiare convivente e, così facendo, si procura la posta personale?

La prima accortezza, non affidarsi solo al certificato di residenza, perché – come detto – il suo valore è di semplice “indizio” (in termini legali, è una presunzione, che però può essere vinta da una prova contraria).

Bisogna dimostrare allora la effettiva residenza in altro modo. Come?

Ad esempio producendo le bollette ove si evince che sei intestatario di una utenza telefonica in altro luogo; con il certificato di residenza della propria moglie con cui si vive ed in base al quale si evince che la dimora familiare è altrove; in base a testimoni, i vicini di casa che vi vedono quotidianamente entrare ed uscire di casa; senza contare le dichiarazioni fiscali e quelle al Comune per le imposte locali che annualmente bisogna versare.

Dunque il certificato anagrafico non basta a dimostrare di avere una residenza diversa da quella ove il postino ha consegnato la raccomandata certificando di averla data nelle mani di un familiare convivente.

Ci sono tanti precedenti che affermano il medesimo principio. Solo l’anno scorso la stessa Cassazione aveva detto che i certificati di residenza rilasciati dal Comune rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora, che è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro le stesse risultanze anagrafiche; l’unica cosa che rileva in via esclusiva è il luogo ove il destinatario della notifica dimori, di fatto, in via abituale. In questo modo si può anche evitare le cosiddette residenze di comodo in abitazioni dove il soggetto non si trova mai, circostanza che renderebbe impossibile qualsiasi notifica.

La Cassazione, in termini più tecnici, usa le seguenti parole. In caso di una notifica fatta con posta raccomandata, qualora la consegna della busta sia avvenuta a mano di un familiare convivente con il destinatario, deve presumersi che l’atto sia giunto a conoscenza dello stesso. Resta quindi irrilevante ogni indagine sulla riconducibili del luogo di detta consegna tra quelli di residenza, dimora o domicilio del destinatario, in quanto il problema dell’identificazione del luogo ove è stata eseguita la notifica rimane assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa da chi ha preso in consegna la busta.

Spetta allora all’effettivo destinatario dimostrare il contrario.

La consegna dell’atto a persona di famiglia convivente con il destinatario nel luogo indicato sulla busta fa presumere che in quel luogo si trovino la residenza effettiva, la dimora o il domicilio del destinatario. Con la conseguenza che quest’ultimo, qualora voglia contestare in causa tale circostanza per far dichiarare nulla la notifica, deve fornire una prova contraria. Tale prova, peraltro, non può essere costituita dalle risultanze anagrafiche, ossia dal certificato di residenza del Comune le quali, anche se indicano una residenza diversa dal luogo ove è stata effettuata la notifica, hanno un semplice valore presuntivo e possono essere superate, in quanto tali, da una prova contraria.

fonte https://www.laleggepertutti.it/211998_certificato-di-residenza-che-valore-ha

Tassa rifiuti: si può non pagare se l'immobile è inutilizzato?

1521527368139.jpg roma cosi ci fregano sulla tariffa sui rifiuti

http://www.iltempo.it/roma-capitale/2018/03/20/news/roma-cosi-ci-fregano-sulla-tariffa-sui-rifiuti-1056628/

 

Chi possiede un immobile inutilizzato e inutilizzabile, per esempio perché inagibile e privo dei servizi essenziali, non deve pagare la tassa sui rifiuti.

Il venir meno dell’obbligo di pagamento non è tuttavia automatico, ma subordinato ad un’espressa dichiarazione del contribuente il quale deve dimostrare al Comune che l’immobile non è idoneo a produrre rifiuti e che, pertanto, la tassa non deve essere pagata.

Sono i singoli regolamenti comunali a fissare le modalità e i termini entro i quali deve essere presentata la dichiarazione ai fini dell’esenzione o riduzione della tassa sui rifiuti. I Comuni non possono tuttavia far ricadere sul contribuente adempimenti burocratici eccessivamente gravosi, dovendo comunque rispettare il principio di collaborazione e buona fede tra amministrazione e cittadini.

Vediamo allora come fare per non pagare la tassa sui rifiuti se si possiede un immobile inutilizzato.

La tassa sui rifiuti è dovuta per l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa.

Non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti: 

per la loro natura; per il particolare uso cui sono stabilmente destinati; perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell’anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o ad idonea documentazione.

Il contribuente che possiede un immobile avente una delle caratteristiche sopra enunciate deve evitare che arrivi l’accertamento della tassa sui rifiuti e a tal fine presentare un’apposita dichiarazione al Comune.

In particolare, nel caso di immobile divenuto inutilizzabile in un momento successivo alla dichiarazione originaria, occorre presentare una denuncia di variazione e allegare la documentazione utile a dimostrare le condizioni dell’immobile, tali da renderlo non produttivo di rifiuti.
 
La Cassazione, con una recentissima sentenza, ha precisato che il Comune non può pretendere che la denuncia ai fini dell’esenzione della tassa rifiuti venga presentata ogni anno.
Dunque, se la condizione di inutilizzabilità dell’immobile permane negli anni, è illegittima la tassa rifiuti addebitata per il solo fatto che il contribuente non abbia presentato la dichiarazione anche gli anni successivi.
Le comunicazioni relative all’inidoneità del locale alla produzione dei rifiuti deve avvenire solo quando vi siano delle variazioni e non necessariamente ogni anno. Ciò in quanto la denuncia ha effetto anche per gli anni successivi, qualora le condizioni di tassabilità siano rimaste invariate.
 
In caso contrario il contribuente è tenuto a denunciare ogni variazione relativa ai locali ed aree, alla loro superficie e destinazione che comporti un maggior ammontare della tassa o comunque influisca sull’applicazione e riscossione del tributo in relazione ai dati da indicare nella denuncia. 
 
In effetti, la circostanza che l’imposta sia calcolata prendendo come base di calcolo l’anno solare non implica come necessaria conseguenza che le denunce di variazione abbiano la stessa cadenza in quanto non vi è ragionevolmente alcun bisogno che tale denuncia si faccia quando non si sia verificata alcuna variazione. D’altronde occorre garantire l’equilibrio tra le esigenze impositive dell’ente locale e la salvaguardia del principio di correttezza, solidarietà ed effettiva capacità contributiva, che impone di evitare di gravare il contribuente di adempimenti e preclusioni non strettamente funzionali alla corretta riscossione delle imposte. Inoltre la disciplina statale, in quanto fonte sovraordinata rispetto ai regolamenti comunali, può da essi essere specificata ma non anche implicitamente derogata mediante la negazione della possibilità di affermare e provare, con una dichiarazione in variazione supportata da idonea documentazione, che una certa area era in passato inidonea a produrre rifiuti.
 
 
La denuncia, originaria o di variazione, necessaria per beneficiare dell’esenzione della tassa sui rifiuti, deve contenere una serie di elementi:
 
l’indicazione del codice fiscale, degli elementi identificativi delle persone fisiche componenti del nucleo familiare o della convivenza, che occupano o detengono l’immobile di residenza o l’abitazione principale ovvero dimorano nell’immobile a disposizione, dei loro rappresentanti legali e della relativa residenza, della denominazione e relativo scopo sociale o istituzionale dell’ente, istituto, associazione, società ed altre organizzazioni nonché della loro sede principale, legale o effettiva, delle persone che ne hanno la rappresentanza e l’amministrazione, dell’ubicazione, superficie e destinazione dei singoli locali ed aree denunciati e delle loro ripartizioni interne, nonché della data di inizio dell’occupazione o detenzione.
 
La denuncia è redatta sugli appositi modelli predisposti dal Comune e dallo stesso messi a disposizione degli utenti presso gli uffici comunali e circoscrizionali.
 
La dichiarazione, sottoscritta e presentata da uno dei coobbligati o dal rappresentante legale o negoziale, deve essere accompagnata dalla documentazione tecnica e/o fotografica idonea a provare l’inutilizzabilità dell’immobile.
 
 
 
fonte https://www.laleggepertutti.it/210682_immobile-inutilizzato-si-paga-la-tassa-sui-rifiuti
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