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Nuove costruzioni: obbligatorie colonnine ricarica auto elettriche

A metterlo nero su bianco, inserendolo nei propri regolamenti edilizi, sono solo pochi Comuni in Italia.


Da Nord a Sud, consultando i siti dei capoluoghi di Regione, solo Milano, Torino, Bologna e Campobasso risultano adeguati. 

Eppure, la scadenza è imminente: entro il 31 dicembre 2017, tutte le amministrazioni locali dovranno inserire una norma nel proprio regolamento edilizio che vincola gli edifici (residenziali e non, sopra i 500 metri quadri e di nuova costruzione, tranne gli edifici pubblici) alla predisposizione all’allaccio di infrastrutture elettriche per la ricarica dei veicoli. Pena: il mancato rilascio del titolo abilitativo. A prevederlo è il Testo unico dell’edilizia.


Le norme Ue 

La regola discende dal Dlgs 257/2016, che ha modificato il Testo unico edilizia (articolo 4 del Dpr 380/2001 ). La norma, a sua volta, attua la direttiva europea 2014/94/Ue che stabilisce i requisiti minimi in materia di realizzazione di infrastrutture per i combustibili alternativi, inclusi i punti di ricarica per i mezzi elettrici. E proprio in questi giorni Bruxelles ha rilanciato sulle auto green: secondo la Commissione, entro il 2030 i produttori dovranno ridurre del 30% le emissioni della propria flotta, ampliando a un terzo della flotta l’offerta di veicoli a motore pulito.
In Italia già il Dl 83/2012 aveva indicato il 1° giugno 2014 come data entro cui i Comuni avrebbero dovuto prevedere nei regolamenti edilizi la norma sulle colonnine di ricarica, obiettivo poi aggiornato alla fine del 2017.


I vincoli 

Ora le previsioni sono più specifiche. L’articolo 4 prevede, infatti, l’obbligo di predisporre l’installazione di colonnine di ricarica per auto elettriche per tutti gli edifici non residenziali di nuova costruzione di superficie superiore a 500 metri quadri; per gli edifici residenziali di nuova costruzione con almeno 10 unità abitative; per i fabbricati già esistenti sottoposti a ristrutturazione edilizia di primo livello (cioè soggetti a un intervento che coinvolga almeno il 50% della superficie lorda e l’impianto termico).

Le infrastrutture di ricarica devono permettere la connessione di una vettura per ogni parcheggio coperto o scoperto o per ciascun box per auto presente nell’immobile. Per i soli edifici residenziali di nuova costruzione con almeno 10 unità abitative il numero di spazi a parcheggio e box auto dotati di colonnina non deve essere inferiore al 20% del totale. Le colonnine sono un servizio misurabile: l’accesso alla ricarica, in genere, avviene tramite tessere magnetiche individuali e quindi è possibile ripartire le spese sulla base degli effettivi consumi.
Nel caso, invece, di una colonnina installata nel box di pertinenza di una singola proprietà, anche se in condominio, se l’allacciamento elettrico per lo spazio garage è comune, è possibile installare un contatore e procedere ogni anno alla lettura dei consumi, comunicandoli all’amministratore, come già capita per il riscaldamento con le termovalvole.


L’adeguamento 

Nonostante i tempi siano ormai agli sgoccioli (il termine scatta il 31 dicembre, salvo proroghe dell’ultima ora), poche amministrazioni tra le principali città in Italia paiono avere recepito la novità. Monitorando i regolamenti edilizi pubblicati sui portali dei Comuni (in genere nella sezione “amministrazione trasparente”), solo alcuni capoluoghi del Nord, con l’aggiunta di Campobasso, hanno inserito regole sulla obbligatorietà di predisporre punti di ricarica.


A Milano l’attuazione (avvenuta già sulla base del Dl 83/2012) prevede per tutti i nuovi interventi (indipendentemente dalla dimensione e dalla destinazione d’uso) la creazione di box con presa per la ricarica dei veicoli e relativa contabilizzazione dei consumi. Risale a tre anni fa anche l’adeguamento di Bologna: l’articolo 55 norma la presenza di prese nei box e posti auto di tutti gli immobili con superficie superiore a 500 metri quadrati. A Torino l’obbligo è riferito agli immobili di grandi dimensioni e con uso non residenziale. Campobasso recepisce la norma nazionale. Altre città, come Genova, sono in fase di revisione: l’adeguamento è previsto entro l’autunno (si veda il dettaglio nelle schede a fianco).
In caso di mancato “allineamento” da parte dei Comuni, il Testo unico edilizia prevede che le Regioni si sostituiscano ai Comuni e facciano decadere i titoli edilizi rilasciati per edifici non costruiti seguendo le regole, in base alle proprie leggi regionali.


Fonte articolo: IlSole24ore

 

Se la Tari è "gonfiata" si può chiedere il rimborso; ecco come

Continua a tenere banco la questione della quota variabile Tari, che diversi Comuni hanno applicato illegittimamente anche alle pertinenze delle utenze domestiche, sollevata dalla risposta all'interrogazione parlamentare del 18 ottobre scorso.


Il problema, di cui avevamo già parlato mostrando un esempio di calcolo, è sorto nel 2014 con il passaggio alla Tari, che prevede l'applicazione del metodo normalizzato (Dpr 158/99) distinguendo la quota fissa dalla quota variabile. 

 

Dopo la breve parentesi del 2013 con la Tares (per i Comuni che l'hanno istituita), si è passati da una tariffa "monomia" della Tarsu a una tariffa "binomia" della Tari, composta da una quota fissa correlata alla superficie e al numero dei componenti del nucleo familiare, e da una quota variabile collegata solo al numero degli occupanti. Quindi se una famiglia di 4 persone occupa 100 o 200 mq, la quota variabile è sempre la stessa, cambia invece la quota fissa.

La Tari "gonfiata"

La determinazione delle quote, fissa e variabile, dipende dai costi complessivi del servizio rifiuti, previsti dal piano finanziario Tari approvato dal Comune in base ai criteri del Dpr 158/99, distinguendo peraltro le tipologie di utenze (domestiche e non domestiche) e rispettando la copertura integrale dei costi. Si arriva così a quantificare delle tariffe: in particolare quelle relative alle utenze domestiche sono contenute in una tabella di sei righe distinte per numero di componenti del nucleo familiare (da uno a sei o più componenti).


Le tariffe Tari sono però riferite all' "utenza", comprensiva delle pertinenze (garage, cantina, eccetera), diversamente dalle aliquote Imu che invece considerano l'unità immobiliare intesa in senso catastale. Ed è qui che può sorgere l'errore di calcolo della Tari, perché diversi Comuni applicano a ogni unità immobiliare sia la quota fissa sia quella variabile, mentre quest'ultima, essendo correlata solo al numero degli occupanti, andrebbe associata all'intera utenza.


Risulterebbe così gonfiata la Tari da corrispondere in caso di abitazioni con pertinenze. Lo stesso dicasi in caso di abitazioni di vecchia costruzione composte da più subalterni catastali ma che di fatto costituiscono un'unica utenza domestica. È evidente che l'applicazione della parte variabile a ogni pertinenza o unità immobiliare comporta un notevole aumento della Tari da pagare, aumento che il Mef ritiene illegittimo.

Che cosa deve fare il contribuente 

Il contribuente, dopo aver attentamente verificato la propria posizione già nell'avviso di pagamento, dovrebbe quindi chiedere al Comune il rimborso di quanto indebitamente pagato o la compensazione sulla bolletta dell'anno prossimo. L'operazione dovrebbe comunque passare attraverso una rideterminazione complessiva delle tariffe, riguardante l'intera platea delle utenze domestiche: quelle con pertinenze, che sono state penalizzate e quelle senza pertinenze. Ci sono comunque cinque anni di tempo dal versamento per chiedere il rimborso, che il Comune dovrebbe effettuare entro 180 giorni dalla presentazione dell'istanza.
Ovviamente l'eventuale riscontro negativo ovvero il silenzio-rifiuto espone l'ente ad un contenzioso che potrebbe rivelarsi controproducente, alla luce della recente interpretazione ministeriale.


Come si fa a capire di aver versato la Tari "gonfiata"? 
Sono pochi i Comuni che hanno espressamente previsto nei loro regolamenti Tari la non applicabilità della quota variabile alle pertinenze dell'utenza domestica. Si dovrebbero quindi leggere attentamente gli avvisi di pagamento che l'ente ha inviato a tutti i contribuenti (la Tari è riscossa normalmente su liquidazione d'ufficio) e verificare, in caso dipertinenze, che la quota variabile applicata risulti pari a zero euro.


In quale parte dell'avviso di pagamento è indicata la quota variabile? 
In genere l'avviso di pagamento della Tari contiene il riepilogo dell'importo da pagare, le istruzioni per il versamento (scadenza rate e codice tributo) nonché il dettaglio delle somme. È in questa parte che l'ente indica le unità immobiliari (con i dati catastali: foglio, particella, sub), la superficie tassata, il numero degli occupanti e la quota fissa e variabile distinta per ogni unità immobiliare. La quota variabile deve essere presente solo per l'abitazione, non anche per le eventuali pertinenze.


Entro quale termine il contribuente può chiedere il rimborso al Comune? È obbligatorio per il Comune rispondere all'istanza? 
L'articolo 1 comma 164 della legge 296/2006 (finanziaria 2007) stabilisce che il rimborso delle somme versate e non dovute deve essere richiesto dal contribuente entro il termine di cinque anni dal giorno del versamento, ovvero da quello in cui è stato accertato il diritto alla restituzione. La stessa norma impone inoltre all'ente di effettuare il rimborso entro centottanta giorni dalla data di presentazione dell'istanza, ma non è da escludere un eventuale silenzio-rifiuto da parte dell'ente.


Qual è il termine per proporre ricorso? 
Il contribuente, in caso di diniego espresso al rimborso, ha 60 giorni di tempo per proporre ricorso alla commissione tributaria provinciale territorialmente competente. Nel caso di silenzio-rifiuto - che si forma dopo 90 giorni dalla presentazione dell'istanza (articolo 21 Dlgs 546/92), ma è consigliabile attendere 180 giorni previsti dalla norma sui tributi locali (comma 164 legge 296/06) - il contribuente deve proporre ricorso entro cinque anni (termine di prescrizione del diritto secondo la giurisprudenza più recente).


È possibile sollevare la questione in caso di contenzioso pendente? 
La disciplina sul processo tributario impone al contribuente di inserire nel ricorso tutti i motivi che costituiscono la materia del contendere, non essendo possibile, in seguito, integrare il ricorso con altri motivi. Pertanto se il soggetto passivo non ha sollevato subito, in sede di motivi di ricorso, la questione dell'illegittimità della duplicazione della quota variabile Tari, non potrà più farlo successivamente.


Come regolarsi se la Tari è gestita da un soggetto diverso dal Comune (ad esempio da una società in house)? 
In caso di gestione esternalizzata del tributo, ad esempio da parte della società che gestisce il servizio rifiuti (che potrebbe essere una società in house), il contribuente deve presentare a questa e non al Comune l'istanza di rimborso della quota Tari indebitamente pagata. Allo stesso modo, in caso di diniego o silenzio-rifiuto, il ricorso dovrà essere proposto contro la società.


Fonte articolo: IlSole24ore

Detrazioni edilizie: cosa accade se cambia il proprietario dell'immobile?

Per le ristrutturazioni edilizie è possibile beneficiare di agevolazioni fiscali.


Chi esegue lavori sulla propria casa da ristrutturare ha diritto a una detrazione Irpef del 50%, con un tetto massimo di spesa di 96.000 euro, fino al 31 dicembre 2017. 

Ma cosa accade se l’immobile sul quale è stato eseguito l’intervento di recupero edilizio è venduto prima che sia trascorso l’intero periodo per fruire dell’agevolazione?


Se l’immobile sul quale è stato eseguito l’intervento di recupero edilizio è venduto prima che sia trascorso l’intero periodo per fruire dell’agevolazione, il diritto alla detrazione delle quote non utilizzate è trasferito, salvo diverso accordo delle parti, all’acquirente dell’unità immobiliare (se persona fisica).


In sostanza, in caso di vendita e, più in generale, di trasferimento per atto tra vivi, il venditore ha la possibilità di scegliere se continuare a usufruire delle detrazioni non ancora utilizzate o trasferire il diritto all’acquirente (persona fisica) dell’immobile. Tuttavia, in assenza di specifiche indicazioni nell’atto di compravendita, il beneficio viene automaticamente trasferito all’acquirente dell’immobile. Per stabilire chi può fruire della quota di detrazione relativa a un anno, occorre individuare il soggetto che possedeva l’immobile al 31 dicembre di quell’anno.


Il trasferimento di una quota dell’immobile non determina un analogo trasferimento del diritto alla detrazione, che avviene solo in presenza della cessione dell’intero immobile. Se, tuttavia, per effetto della cessione della quota chi acquista diventa proprietario esclusivo dell’immobile, la residua detrazione si trasmette all’acquirente.


In caso di decesso dell’avente diritto, la detrazione non fruita in tutto o in parte è trasferita, per i rimanenti periodi d’imposta, esclusivamente all’erede o agli eredi che conservano la “detenzione materiale e diretta dell’immobile”. La condizione della detenzione del bene deve sussistere non soltanto per l’anno di accettazione dell’eredità, ma anche per ciascun anno per il quale si vuole fruire delle residue rate di detrazione.


Se, per esempio, l’erede che deteneva direttamente l’immobile ereditato successivamente concede in comodato o in locazione l’immobile stesso, non potrà fruire delle rate di detrazione di competenza degli anni in cui non ha più la detenzione materiale e diretta del bene. Potrà beneficiare delle eventuali rate residue di competenza degli anni successivi al termine del contratto di comodato o di locazione.
In caso di vendita o di donazione da parte dell’erede che ha la detenzione materiale e diretta del bene, le quote residue della detrazione non fruite da questi non si trasferiscono all’acquirente o donatario, neanche quando la vendita o la donazione sono effettuate nello stesso anno di accettazione dell’eredità.


Fonte articolo: Idealista.it

 

Affitti: cedolare secca o tassazione ordinaria?

La Legge di Bilancio 2018, che ha da poco cominciato il suo iter parlamentare, contiene la tanto attesa proroga della cedolare secca al 10% per i contratti a canone concordato.


Ma qual è la differenza tra la tassazione agevolata sugli affitti e quella ordinaria? A spiegarlo sono i nostri collaboratori di condominioweb.

 

Negli ultimi anni la disciplina relativa alla registrazione di un contratto di locazione è stata profondamente modificata sia per l'introduzione di nuove procedure di tassazione, ad esempio tassazione forfettaria della cedolare secca, sia per aver reso più semplice la registrazione favorendo il canale telematico.

Registrazione contratto locazione senza cedolare secca

Per i contribuenti che preferiscono scegliere la tassazione ordinaria (o per quanti non hanno la possibilità di optare per la cedolare secca) la registrazione di un contratto di locazione comporta il pagamento di:

  • - Imposta di registro pari al 2% del canone annuo (tale importo andrà quindi moltiplicato per il numero di annualità previste);
  • - Imposta di bollo pari a 16 euro ogni 4 facciate del contratto (o comunque ogni 100 righe).

    Tali imposte sono dovute per ogni copia per la quale è richiesta la registrazione.
    Qualora il contratto abbia una durata di più anni, l'imposta di registro potrà essere pagata:

  • - Annualmente: L'importo dovuto è il 2% del canone inerente ogni annualità con un minimo di 67 euro. L'imposta è dovuta entro 30 giorni dalla scadenza della precedente annualità;
    - Per più anni: Qualora si opti per il pagamento in unica soluzione il versamento sarà del 2% del corrispettivo complessivo.

  • A tale importo occorrerà detrarre un importo pari alla metà del tasso di interesse legale (pari allo 0,5% a partire dal 1° Gennaio 2015) per il numero delle annualità, pertanto avremo:

  1. Detrazione pari allo 0,5% qualora il contratto duri 2 anni;
  2. Detrazione pari allo 0,75% per contratto di durata 3 anni;
  3. Detrazione pari ad 1% per contratto di durata pari a 4 anni.

registrazione contratto di affitto con cedolare secca

La cedolare secca è una modalità di tassazione forfettaria alternativa alla tassazione ordinaria che è possibili scegliere qualora si posseggano i seguenti requisiti:

  • - Immobile oggetto della locazione appartenente alle categorie catastali da A1 ad A11 (ad eccezione della cat. A10 – uffici e studi privati) locato per un uso esclusivamente abitativo.

    - E' possibile far rientrare nel regime della cedolare secca anche le eventuali pertinenze locate insieme all'abitazione (ad esempio cantina o garage).

    Inoltre è stato precisato che non potranno beneficiare della cedolare secca i contratti di locazione che hanno per oggetto immobili accatastati come abitativi, ma locati ad uso ufficio o promiscuo.
    Non è inoltre possibile beneficiare della cosiddetta tassa piatta qualora l'immobile affittato sia situato all'estero o qualora si effettui una sublocazione;
    Le parti del contratto di locazione sono privati o esercenti attività di impresa o professionisti che no non agiscono nell'esercizio dell'attività. Non potranno pertanto aderire alla cedolare secca associazioni ed enti commerciali e non commerciali.


  • Pertanto i contratti devono avere come parti soggetti che non agiscono nell'esercizio di imprese, arti o professioni compresi anche enti pubblici o privati non commerciali.
    La cedolare secca è un'unica tassa che sostituisce Irpef, addizionale regionale e addizionale comunale (in merito alla parte che deriva dal reddito dell'immobile), imposta ai fini del registro ed imposta di bollo. La tassazione prevista per chi sceglie il regime della cedolare secca è pari a:

  • - 21% del canone annuo qualora il contratto di affitto sia a canone libero;
  • - 15% del canone annuo (10% peri contratti che hanno validità nel periodo 2014 – 2017) per i contratti di affitto a canone concordato per abitazioni che si trovano in Comuni ad alta tensione abitativa, nei Comuni con carenze di disponibilità abitative, nei Comuni per i quali è stato deliberato lo stato di emergenza a seguito di eventi calamitosi nel quinquennio precedente il 28 maggio 2014.

L'opzione per la cosiddetta “tassa piatta” potrà essere effettuata dal contribuente:

  • - All'atto della registrazione del contratto (che può avvenire sia telematicamente che tramite presentazione in ufficio sempre tramite modello Rli);
  • - In annualità successiva (il termine per aderire alla tassa sarà comunque di 30 giorni dalla scadenza di ogni annualità);
  • - Qualora avvenga la proroga del contratto di locazione, anche tacita (il termine previsto anche in questo caso sarà comunque di 30 giorni da quando è stata effettuata la proroga).
    - Qualora si opti per la cedolare secca il locatore applicherà tale regime per l'intero periodo di durata del contratto o, qualora sia effettuata in annualità successive, per il residuo periodo di durata del contratto.


In ogni caso il locatore ha comunque la possibilità di revocare l'opzione in ogni annualità contrattuale successiva a quella in cui è stata esercitata (qualora si cambi regime le imposte di registro e quelle di bollo già versate non potranno essere rimborsate). Inoltre se viene scelta la cedolare secca per tutto il periodo di durata del contratto di locazione non potrà essere applicato l'aggiornamento del canone, incluso l'adeguamento Istat (in sostanza l'importo del canone rimarrà invariato).

Pagamento della cedolare secca

Per effettuare il pagamento dell'imposta sostitutiva occorrerà fare riferimento alle regole in materia di Irpef, infatti sia il calcolo dell'importo che le scadenze sono simili a quelle dell'imposte sui redditi (a variare è solo l'entità dell'acconto che è pari al 95% dell'imposta pagata nell'anno precedente).
L'acconto sulla cedolare secca non è dovuto qualora sia il primo anno in cui si è optato per la tassazione forfettaria. Per gli anni successivi il pagamento dell'acconto sarà dovuto qualora l'imposta sostitutiva dovuta per l'anno precedente è di ammontare superiore a 51,65 euro. In tale caso il versamento sarà:

  • - In unica soluzione se l'ammontare della cedolare è inferiore a 257,52 euro (con scadenza entro il 30 novembre);
  • - In due soluzione se l'imposta dovuta supera 257,52 euro.

    In tal caso il primo acconto sarà pari al 40% del 95% di quanto pagato nell'anno precedente e sarà dovuto entro il 16 Giugno (la scadenza sarà il 16 Luglio qualora l'importo venga maggiorato dello 0,40%).

    La restante parte dell'acconto (pari al 60% del 95% di quanto pagato nell'anno precedente) dovrà essere versata entro il 30 Novembre.
    Anche per il pagamento del successivo saldo le regole saranno simili a quelle Irpef. In particolare il versamento dovrà essere effettuato entro il 16 Giugno dell'anno successivo (entro il 16 Luglio qualora venga applicata la maggiorazione del 0,40%).

I codici tributi che andranno inseriti all'interno del modello F24 saranno i seguenti:

1840 – Cedolare secca locazioni – Acconto prima rata;
1841 – Cedolare secca locazioni – Acconto seconda rata o unica soluzione;
1842 – Cedolare secca locazioni – Saldo.


Fonte articolo: idealista.it

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