Se l'affitto è in nero, l'inquilino paga un'indennità, non il canone

Salva la norma con cui il legislatore ha inteso tutelare l'affidamento del conduttore.


Il locatore non può agire contro l'inquilino per ottenere la differenza tra quanto versato e quanto pattuito, giacché il triplo della rendita catastale equivale all'indennità di occupazione stabilita dalla legge e non rappresenta un canone di affitto.

 

In tema di tardiva registrazione del contratto di locazione, la Consulta considera legittimo l'art. 13 c. 5 legge 431/1998, così come novellato dalla Legge diSstabilità 2016,"salvando" gli inquilini che avevano registrato tardivamente il contratto e "auto-ridotto" l'affitto.
Secondo il giudice delle leggi, non si tratta di un canone locatizio, ma di un'indennità di occupazione; inoltre, la norma di cui sopra non ripropone quella caducata dalla precedente declaratoria di illegittimità ed, infine, il pregiudizio economico patito dal locatore è "non irragionevole"(Corte Costituzionale, ordinanza n. 238 del 2017).


La vicenda. Il locatore agisce in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Palermo, nei confronti del conduttore al fine di ottenere una condanna al pagamento della differenza tra quanto effettivamente pattuito e quello che l'inquilino aveva versato. Il conduttore, infatti, si era "auto-ridotto" il canone.
Tuttavia non si trattava di un atto arbitrario,giacché l'inquilino, denunciando l'affitto in nero, si era avvalso di quanto disposto dall'art. 13 legge 431/1998.


Infatti, secondo la legge, il conduttore che consenta l'emersione di un contratto non registrato è autorizzato a versare il corrispettivo nella minor misura pari al triplo della rendita catastale. Il Tribunale di Palermo solleva una questione incidentale di legittimità costituzionale su quanto disposto dall'art. 1 comma 59 legge 208/2015 (legge di stabilità 2016) nella parte in cui ha sostituito l'art. 13 della legge 431/1998.
Secondo il giudicante, la citata norma, così come emendata, sarebbe in contrasto con una precedente declaratoria di illegittimità costituzionale, pronunciata sull'art. 3 comma 8 del d. lgs. 23/2011 (legge sulla "cedolare secca").


Per meglio comprendere il complesso quadro giuridico, occorre fare un passo indietro ed analizzare le precedenti pronunce di illegittimità costituzionale.
Interventi della Corte Costituzionale in ambito locatizio. Nel 2014 la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 3, commi 8 e 9, del d. lgs 23/2011 (legge della "cedolare secca").
La norma in commento consentiva all'inquilino, che denunciava il contratto locatizio in nero, di ottenere una significativa riduzione del canone.


Nondimeno, secondo la Corte Costituzionale, tale disposizione non poteva produrre effetti sananti in pregiudizio degli interessi del locatore. In buona sostanza, la norma che consente all'inquilino l'auto-riduzione del canone nella misura del triplo della rendita catastale è discriminatoria nei confronti dei locatori e lesiva del diritto di proprietà (Corte Cost. 50/2014; Corte Cost.169/2015). La Consulta, quindi, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 3, commi 8 e 9, d. lgs 23/2011, che è da considerarsi caducato.


Conseguenze della declaratoria di illegittimità costituzionale. Gli inquilini che dal 2011 (anno di entrata in vigore dell'art. 3 comma 8 del d. lgs 23/2011) al 16 luglio 2015 (data della pronuncia di incostituzionalità n. 169/2015) avevano versato un corrispettivo pari al triplo della rendita catastale - in ossequio ad una precisa disposizione di legge (ossia del succitato art. 3 comma 8 d. lgs 23/2011) - si trovavano scevri di tutela ed erano esposti alle pretese del locatore, il quale aveva titolo per chiedere la corresponsione della differenza tra quanto versato (vale a dire il triplo della rendita) e quanto concordato nel contratto.


In buona sostanza, a causa dell'intervento caducante della Corte Costituzionale, i conduttori che avevano denunciato l'affitto in nero e auto-ridotto il canone, rischiavano di subire la richiesta della differenza da parte del proprietario di casa.
Soluzione "tampone" adottata dal legislatore. Visto il caotico quadro normativo venutosi a creare a seguito delle su ricordate sentenze della Consulta, il legislatore è intervenuto sostituendo l'art. 13 della legge 431/1998, con quanto disposto dall'art. 1 comma 59 legge 208/2015 (legge di stabilità 2016).


La norma cerca di chiarire la situazione originata dalla declaratoria di incostituzionalità. Secondo la citata disposizione, l'inquilino che provvede a registrare il contratto, ha correttamente auto-ridotto il canone, almeno sino al 16 luglio 2015.
In altre parole, sino alla data indicata, il conduttore non deve alcuna somma ulteriore al locatore rispetto a quanto versato (ovverosia il triplo della rendita catastale).


Riassumendo, dal 7 aprile 2011 al 16 luglio 2015, il conduttore che abbia registrato il contratto, facendo emergere il sommerso, ha correttamente corrisposto un canone ridotto.
Invece, a far data dal 17 luglio 2015, l'inquilino è tenuto a versare il canone nella misura concordata dal contratto. In difetto, si espone a possibili azioni da parte del proprietario dell'immobile.
Il nuovo art. 13 legge 431/1998 e la questione di legittimità costituzionale. Tutto ciò premesso, possiamo tornare alla disamina dell'ultima sentenza, in ordine di tempo, pronunciata dalla Consulta.


Secondo i giudici a quibus (Tribunale di Palermo e Tribunale di Milano), l'art. 13 legge 431/1998 come novellato dalla Legge di Stabilità 2016, reiterava il cosiddetto "contratto catastale", introdotto nel nostro ordinamento dall'art. 3 comma 8 d. lgs. 23/2011, dichiarato costituzionalmente illegittimo e caducato (Corte Cost. sent. 50/2014 e 169/2015).
La Corte, al contrario, ritiene che l'art. 13 legge 431/1988 "non ripristina (né ridefinisce il contenuto relativo a durata e corrispettivo) dei pregressi contratti non registrati, la cui convalida […] è venuta meno, ex tunc, in conseguenza delle correlative declaratorie di illegittimità costituzionale e viceversa prevede una predeterminazione forfettaria del danno patito dal locatore e/o della misura dell'indennizzo dovuto dal conduttore, in ragione dell'occupazione illegittima del bene locato, stante la nullità del contratto e, dunque, l'assenza di suoi effetti ab origine".


Situazione di fatto e indennità di occupazione dovuta dal conduttore. Secondo il percorso argomentativo seguito dal giudice delle leggi, relativamente ai contratti non registrati tempestivamente, il pagamento del "canone catastale" va ricollegato allo stato di fatto di illegittima detenzione del bene.
Detenzione illegittima in quanto avvenuta in forza di un contratto nullo, giacché non registrato.


Pertanto è coerente il pagamento da parte del conduttore di un'indennità di occupazione e non già di un canone di locazione, che non è dovuto. Non a caso, l'art. 13 legge 431/1998 non menziona l'adeguamento ISTAT dell'importo da versare, proprio perché non si tratta di un canone locatizio.

Breve e sintetica cronistoria:
  • 2011: art. 3, commi 8 e 9, del d. lgs 23/2011 (trattasi della legge sulla "cedolare secca") consente al conduttore, che faccia emergere un contratto non registrato, di corrispondere un canone pari al triplo della rendita catastale (cosiddetto "contratto catastale");
  • 2014: la Consulta considera costituzionalmente illegittimo l'art. art. 3, commi 8 e 9, del d. lgs 23/2011,perché è discriminatorio nei confronti dei locatori e lesivo del diritto di proprietà (Corte Cost. 50/2014);
  • 2014: art. 5 c. 1 ter d.l. 47/2014, convertito, sulla salvaguardia degli effetti di disposizioni in materia di contratti di locazione;
  • 2015: la Consulta considera costituzionalmente illegittimo l'art. 5 c. 1 ter d.l. 47/2014, convertito, che di fatto prorogava quanto disposto dall'art. 3 c. 8 e 9 d. lgs 23/2011 (Corte Cost. 169/2015);
  • 2015: il legislatore con l'art. 1 comma 59 legge 208/2015 (legge di stabilità 2016) sostituisce l'art. 13 della legge 431/1998, tutelando gli inquilini che dal 2011 (anno di entrata in vigore dell'art. 3 comma 8 del d. lgs 23/2011) al 16 luglio 2015 (data della pronuncia di incostituzionalità n. 169/2015) avevano versato un corrispettivo pari al triplo della rendita catastale.
  • 2017: la Consulta dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sull'art. 1 comma 59 legge 208/2015 nella parte in cui sostituisce l'art. 13 della legge 431/1998 (Corte Cost. 87/2017 e 238/2017).

Conclusioni

In definitiva, secondo la Corte Costituzionale (sent. 238/2017), è pur vero che l'art. 13 legge 431/1998 - come novellato - riprende in parte il caducato art. 3 comma 8 d. lgs 23/2011, tuttaviala suddetta disposizione "trova giustificazione nella particolare situazione di diritto, ingenerata dalla pregressa normativa poi dichiarata illegittima".


In altre parole, il legislatore ha inteso tutelare l'affidamento del conduttore che, sino alla datadella declaratoria di illegittimità, si era conformato alla legge. Inoltre, il pregiudizio economico riportato dal locatore risulta non irragionevole, stante la sua natura parziale e temporanea.


Inoltre, il proprietario non può agire contro l'inquilino per ottenere la differenza tra quanto versato e quanto pattuito, giacché il triplo della rendita catastale equivale all'indennità di occupazione stabilita dalla legge e non rappresenta un canone di affitto.


Fonte articolo: Idealista.it

 

Danni all'appartamento del vicino durante la ristrutturazione: chi paga?

La Corte di Cassazione (ordinanza n. 27554/2017) ha confermato, nei confronti di una proprietaria di un appartamento, la condanna al risarcimento del danno patrimoniale e biologico e di natura temporanea (per intossicazione da monossido di carbonio) cagionato ad una vicina a seguito della ostruzione della canna fumaria a servizio del suo appartamento dovuta all'esecuzione di lavori di ristrutturazione edilizia effettuati all'interno dell'abitazione soprastante. 

 

Inoltre la Corte ha confermato la riduzione del danno, nella misura del 25%, pari al concorso di colpa della danneggiata, ex art. 1227 comma primo c.c., per avere utilizzato un impianto di riscaldamento non a norma che era stato sequestrato dai funzionari dell'Azienda sanitaria.

La Corte non ha ritenuto sussistente la difesa della proprietaria la quale affermava di essere esente da responsabilità poiché l'otturazione della canna fumaria era stata cagionata dalla impresa appaltatrice, mediante la rottura di un muro e la caduta di calcinacci nella canna fumaria , e perchè non risiedeva nell'immobile dove veniva la sera per indicare alcuni dettagli nella ristrutturazione.
Il Collegio ha applicato il principio di diritto per cui, in materia di appalto che non implichi il totale trasferimento all'appaltatore del potere di fatto sull'immobile nel quale deve essere eseguita l'opera appaltata, non viene meno per il committente e detentore del bene il dovere di custodia e di vigilanza e con esso la conseguente responsabilità di cosa in custodia ex art. 2051 c.c..


Tale norma genera un obbligo che essendo di natura oggettiva , nasce in ragione della sola sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha determinato l'evento.
Secondo l'art. 2051 c.c. spetta al proprietario – committente di assolvere all'onere della prova liberatoria, dimostrando di avere affidato integralmente il potere di fatto sull'immobile alla ditta appaltatrice e di non avere svolto alcuna ingerenza nella esecuzione dei lavori appaltati.


La Corte afferma che l'avere affidato in appalto la ristrutturazione dell'immobile non consente in alcun modo di desumere le modalità di affidamento (totale o parziale) della custodia dell'immobile, né consente di escludere che la proprietaria – committente non sia affatto intervenuta a dare indicazioni per la esecuzione dei lavori.


Infine la Corte conferma il concorso di colpa della danneggiata nella misura del 25% poiché non è stato dimostrato quali iniziative avrebbe potuto assumere per contenere, con certezza probabilistica, il danno e in quanto la condannata non ha assolto all'onere della prova di dimostrare le ragioni che avrebbe dovuto sostenere la danneggiata per ottenere il dissequestro dell'impianto già accertato dalla Asl non conforme alle norme di sicurezza e quali tra i danni subiti sarebbero stati certamente ridotti qualora la danneggiata avesse intrapreso le azioni dovute, tenuto conto della istantaneità del danno alla persona e dei costi sostenuti per l'acquisto dei beni occorrenti a rimpiazzare l'inutilizzabile impianto di riscaldamento.


La Corte afferma che l'ipotesi disciplinata dall'art. 1227, secondo comma c.c., che esclude il risarcimento del danno che il creditore avrebbe dovuto evitare usando l'ordinaria diligenza, è un' eccezione in senso stretto e grava dunque sul debitore il relativo onere della prova. Tale onere non è stato assolto dalla proprietaria dell'immobile in ristrutturazione che pertanto ne paga le conseguenze pecuniarie e consistenti nel predetto risarcimento del danno.


Fonte articolo: Edilizia e territorio, IlSole24ore, vetrina web

Infiltrazioni nell'appartamento appena acquistato: chi paga?

In tema di infiltrazioni in condominio e più nello specifico di macchie presenti in un'unità immobiliare oggetto di compravendita, l'esistenza di tali infiltrazioni conosciute dagli acquirenti da prima dell'acquisto esclude la possibilità di una responsabilità per vizi occulti ai sensi degli artt. 1490-1491 c.c.


Questa in sostanza la conclusione cui è giunta la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 22699 depositata in cancelleria il 28 settembre 2017.

 

I fatti di causa: due persone chiamano in giudizio chi gli ha venduto l'appartamento con due box e cantina per chiedere il risarcimento del danno in relazione a delle infiltrazioni che quest'ultimo avrebbe taciuto al momento dell'acquisto. Vizio occulto, insomma.
In primo grado il Tribunale gli dava ragione, mentre l'esito del giudizio d'appello ribaltava quello di prime cure. Nessuna responsabilità e domanda originariamente posta da rigettarsi, per giunta con condanna alle spese di entrambi i gradi di giudizio.

Che cos'È un vizio occulto e quando può configurarsi?

Un vizio occulto è quel difetto del bene oggetto di compravendita che non si nota - né è possibile notare con la normale avvedutezza - e che comporta un danno per chi l'ha comprato. Danno consistente nella necessità di eliminare il pregiudizio com'anche nel maggior esborso effettuato per acquistarlo.

Vediamo le principali ipotesi di vizi occulti nell'ambito di un appartamento:

  • - mal funzionamento dell'impianto idrico;
  • - mal funzionamento dell'impianto elettrico;
  • - infiltrazioni occultate mediante accurata pitturazione;
  • - infiltrazioni nascoste dalla presenza di mobili in prossimità delle pareti;
  • umidità estesa occultata con pitturazione degli ambienti interessati.

Queste solo alcune delle caratteristiche del vizio occulto.

L'occultamento del vizio da parte del venditore fa sì che non sia necessaria denuncia - da effettuarsi negli altri casi entro otto giorni dalla scoperta - ferma restando la necessità di agire in giudizio entro un anno dallo scoperta (art. 1495 c.c.).

Quando la garanzia per simili problematiche non è dovuta?

Ai sensi dell'art. 1491 del codice civile la garanzia non è dovuta e al momento del contratto il compratore conosceva i vizi della cosa. Non solo, dice la norma: nessuna garanzia anche quando se i vizi erano facilmente riconoscibili, salvo, in questo caso, che il venditore abbia dichiarato che la cosa era esente da vizi.
Come dire: davanti ad un goffo occultamento potrebbe non darsi luogo ad alcuna responsabilità del venditore.


Nel caso risolto dalla sentenza n. 22699, chi aveva acquistato l'appartamento e poi proposto la causa era perfettamente a conoscenza delle circostanze. Tale fatto era inoppugnabile. Gli attori, si legge in sentenza, in quanto già condòmini avevano "finanche concorso a deliberare il conferimento di un incarico tecnico per l'accertamento, per l'appunto, delle perdite d'acqua a piano terra".


Fonte articolo: Condominio.web

L'amministratore risarcisce se non opera secondo il volere dell'assemblea

L’amministratore non può uscire dai confini dettati dall’assemblea: e se conclude una transazione senza successiva ratifica deve restituire quanto ha speso il condominio, anche se l’accordo era vantaggioso.


Questo, in sintesi, il principio espresso dal Tribunale di Milano con la sentenza 5021/2017.

  • L’incarico conferito all’amministratore è assimilabile a un mandato a contenuto generale, abbracciando tutti gli affari attinenti alla gestione condominiale, fatta esclusione per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione. Tra questi ultimi rientra senza dubbio la transazione, cioè quel contratto finalizzato a risolvere una controversia, presente o anche solo potenziale, mediante reciproche concessioni dei contraenti e che comporta quindi la disposizione dei diritti delle parti. È quindi necessaria una preventiva e specifica autorizzazione da parte dell’assemblea condominiale.

  • Nell’ipotesi in cui l’assemblea non abbia definito con esattezza tutti i termini dell’accordo, limitandosi invece a prevedere le regole da seguire in sede di trattative, l’amministratore è tenuto ad attenersi scrupolosamente a tali criteri non potendo, per esempio, formulare autonomamente una proposta transattiva se l’assemblea abbia invece previsto l’obbligo di preventiva consultazione di una commissione di condòmini all’uopo nominata.

  • A tale soluzione è giunto il Tribunale di Milano nella recente sentenza 5021/2017, nell’ambito della quale è stato evidenziato anche come il non puntuale rispetto della procedura dettata in sede assembleare configuri inadempimento dell’amministratore all’obbligo di eseguire le delibere condominiali (articolo 1130 del Codice civile).
    La transazione eventualmente formalizzata in violazione dei confini dettati dall’assemblea è un atto esorbitante i limiti del mandato con la conseguenza che, in mancanza di successiva ratifica dell’accordo da parte del condominio, i relativi obblighi rimangono in capo all’amministratore stesso, in base all’articolo 1711 del Codice civile. Se però la transazione sia già stata eseguita e il relativo obbligo assunto dall’amministratore risulti ormai estinto con risorse del condominio, l’amministratore risulterà soggetto all’azione risarcitoria da parte dei singoli condòmini interessati.

  • Nella quantificazione del relativo danno il giudice meneghino ha ritenuto superflua ogni valutazione in merito all’opportunità o meno a transigere alle condizioni individuate dall’amministratore, ritenendo invece il danno immediatamente identificabile nell’intera spesa affrontata dal condominio. La domanda svolta da un solo condomino può tuttavia essere accolta nei limiti dell’esborso economico da quest’ultimo affrontato, con conseguente condanna dell’Amministratore a risarcire la sola quota millesimale di competenza di chi è andato in giudizio. 

  • Fonte articolo: IlSole24ore, vetrina web

La provvigione spetta al mediatore anche se la compravendita non si conclude

La clausola inserita nel contratto di mediazione “ad affare fatto” non comporta il venir meno della provvigione da corrispondere all'agente anche se poi la vendita non si perfeziona.


A dirlo è una recente ordinanza della Corte di Cassazione, come spiegato dall'Avv. Giuseppe Donato Nuzzo. 

 

Ai fini del riconoscimento del diritto alla provvigione è sufficiente anche la sottoscrizione del preliminare tra le parti, indipendentemente dalla mancata conclusione del contratto definitivo. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 21575 del 18 settembre 2017.

Accolto il ricorso del mediatore: il diritto alla provvigione sorge per aver messo in relazione le parti.


Il caso – Il titolare di un'agenzia immobiliare ricorreva contro la sentenza con la quale la Corte d'Appello di Venezia gli aveva negato il pagamento di 3.000,00 euro a titolo di provvigione dovuta per l'attività di mediazione svolta.
Secondo i giudici territoriali, la clausola inserita nel contratto di mediazione, secondo cui "resta inteso che il compenso sopra indicato non sarà dovuto in caso di mancata vendita" configurerebbe una condizione sospensiva, che subordinava il compenso del mediatore al positivo esito della compravendita.

E poiché, nel caso di specie, le parti, dopo il preliminare, non avevano stipulato il rogito definitivo, tale condizione non si sarebbe verificata.


La Corte ricorda anzitutto che, ai sensi dell'art. 1754 c.c., si qualifica mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione dell'affare, risultando idonea, al fine del riconoscimento del diritto alla provvigione, anche l'esplicazione della semplice attività consistente nella ricerca ed indicazione dell'altro contraente o nellasegnalazione dell'affare.


Ciò vuol dire che, perché sorga il diritto del mediatore al compenso, è sufficiente che la conclusione dell'affare possa ricollegarsi all'opera dallo stesso svolta per l'avvicinamento dei contraenti, purché, però, tale attività costituisca il risultato utile della condotta posta in essere dal mediatore stesso e, poi, valorizzata dalle parti. Il fondamento del diritto al compenso è dunque da ricercarsi nell'attività di mediazione, che si concreta nella messa in relazione delle parti, costituisca l'antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione dell'affare.


Nel caso di specie, dunque, la conclusione dell'affare è senz'altro integrata dalla conclusione del contratto preliminare di vendita intervenuto tra le parti, mentre, ai fini del riconoscimento del diritto alla provvigione, sono indifferenti le vicende successive che hanno condotto le parti a non concludere il contratto definitivo.


Alla conclusione del preliminare va riconosciuto l'effetto dell'insorgere del diritto alla provvigione, indipendentemente dalla scadenza o meno del mandato. Secondo i giudici di Piazza Cavour, inoltre, è errata l'interpretazione della clausola inserita nel contratto di mediazionefornita dalla corte d'appello, perché contraria ai principi di correttezza e buona fede e che si presta a "comportamenti elusivi" che "tolgono effetto allo stesso contratto di incarico".


Per la Suprema Corte, invece, "appare ragionevole ritenere che l'espressione “il compenso non sarà dovuto in caso di mancata vendita” debba essere intesa quale vendita non in senso giuridico, ma in senso economico, quale mancata conclusione dell'affare".


Fonte articolo: Idealista.it

Le tabelle millesimali si possono modificare anche per un solo condòmino

Dopo la legge di riforma, anche le tabelle millesimali redatte secondo criteri convenzionali di ripartizione delle spese, al pari di quelle redatte secondo i criteri legali, possono essere rettificate o modificate dall'assemblea nei casi previsti dall'art. 69 disp. att. c.c., con la maggioranze di cui all'art. 1136, comma 2, c.c., ovvero modificate dal giudice su richiesta anche di uno solo dei condòmini.


È questo il principio espresso dalla sentenza del Tribunale di Cagliari del 10 febbraio 2016, che fa il punto sulla disciplina in materia di rettifica o modifica delle tabelle millesimali contrattuali,alla luce delle modifiche introdotte dalla legge di riforma del 2012.

IL CASO

La questione affrontata dal giudice riguardava, in particolare, la domanda giudiziale proposta dal proprietario di quattro distinte unità immobiliari in condominio, di cui un piano pilotis, per la modifica delle tabelle millesimali in uso in detto condominio fin dalla sua costrizione, predisposte dal costruttore e richiamate all'art. 3 del regolamento condominiale.
Secondo l'attore, il valore assegnatogli dalle tabelle (n.251 millesimi) era errato nella parte in cui:

a) Attribuiva ingiustificatamente al lastrico solare di copertura del fabbricato, di proprietà ed uso comune, un valore millesimale pari a 10/1000, così alterando l'intera ripartizione delle spese;

b) Attribuiva al piano pilotis un valore proporzionale pari a n. 104 millesimi, palesemente esorbitante l'effettiva consistenza e valore del bene.


Il condominio si opponeva alla domanda sostenendo che le tabelle avevano natura contrattuale e, pertanto, non potevano essere modificate su istanza di un solo condòmino; inoltre, dette tabelle erano in uso da quasi trent'anni, il che consentiva di ritenerle tacitamente approvate dall'unanimità dei condòmini.
In ogni caso, le stesse tabelle non erano viziate da alcun errore apprezzabile che potesse giustificare la revisione ai sensi dell'art. 69 disp. att. c.c.


LE TABELLE MILLESIMALI

Prima della legge di riforma del condominio n. 220/2012, era di fondamentale importanza distinguere tra tabelle di natura contrattuale e tabelle di carattere assembleare, al fine di individuare le maggioranze necessarie per la loro approvazione e modifica.


- Le tabelle millesimali hanno natura contrattuale (tabelle convenzionali) quando derogano ai parametri di legge nella individuazione dei criteri di riparto delle spese comuni (art. 1123 e ss. c.c.).
In tal caso, possono essere adottate e (si affermava) modificate solo con l'unanimità dei consensi, e potevano essere opposte ai terzi acquirenti solo ove trascritte ovvero espressamente richiamate nei singoli atti d'acquisto.

- Le tabelle hanno invece carattere assembleare quando si limitano a fare applicazione dei parametri di legge in relazione ai criteri di calcolo dei millesimi di proprietà e di riparto delle spese comuni.
Non avendo carattere dispositivo e negoziale, possono essere approvate e modificate secondo le maggioranze di legge ex art. 1136, comma 2, c.c., ed inoltre rettificate in sede giudiziale anche a richiesta e nell'interesse di uno solo dei condòmini.


Tale impostazione è stata sostanzialmente confermata dalle Sezioni Unite n. 14487 del 2010, le quali, proprio sul presupposto che l'atto di approvazione delle tabelle millesimali, al pari di quello di revisione delle stesse, non ha natura dispositiva né negoziale, hanno ribadito come lo stesso non debba essere approvato con il consenso unanime dei condòmini, essendo a tal fine sufficiente la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, comma 2, c.c.


Invero, la deliberazione che approva le tabelle millesimali non si pone come fonte diretta dell'obbligo contributivo del condomino – risiedendo sempre tale fonte nella legge stessa – ma unicamente come parametro di quantificazione di detto obbligo, determinato in base a criteri tecnici e aritmetici attinti dalla rilevazione dello stato dei luoghi.
Sempre che, naturalmente, le tabelle si limitino a quantificare l'obbligo di pagare le spese facendo applicazione dei parametri di legge.


Diversamente, per introdurre parametri diversi è necessaria l'approvazione delle tabelle all'unanimità.
La riforma del 2012 è intervenuta in materia modificando l'art. 69 disp. att. c.c., di cui è opportuni riportare il testo vigente:

".. (I). I valori proporzionali delle singole unità immobiliari espressi nella tabella millesimale di cui all'articolo 68 possono essere rettificati o modificati all'unanimità.

Tali valori possono essere rettificati o modificati, anche nell'interesse di un solo condomino, con la maggioranza prevista dall'articolo 1136, secondo comma, del codice, nei seguenti casi: 1) quando risulta che sono conseguenza di un errore; 2) quando, per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superfici o di incremento o diminuzione delle unità immobiliari, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare anche di un solo condomino. In tal caso il relativo costo è sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione. (II).

Ai soli fini della revisione dei valori proporzionali espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento di condominio ai sensi dell'articolo 68, può essere convenuto in giudizio unicamente il condominio in persona dell'amministratore. Questi è tenuto a darne senza indugio notizia all'assemblea dei condomini.

L'amministratore che non adempie a quest'obbligo può essere revocato ed è tenuto al risarcimento degli eventuali danni. (III).

Le norme di cui al presente articolo si applicano per la rettifica o la revisione delle tabelle per la ripartizione delle spese redatte in applicazione dei criteri legali o convenzionali …”.


LA SENTENZA

Ora, il Tribunale di Cagliari - aderendo alla lettura della norma avallata dalla Cassazione successiva al2012 – ritiene che la riforma abbia in parte innovato il quadro giurisprudenziale sopra delineato.
Infatti, il terzo comma dell'art. 69 citato (evidenziato in neretto) prevede ora, espressamente, che anche le tabelle redatte con criteri convenzionali possano essere rettificate o modificate a maggioranza, non essendo più necessario il consenso unanime dei condòmini.

In altri termini, anche le tabelle convenzionali possono essere rettificate per errore ovvero modificate per sopravvenuti mutamenti dello stato dei luoghi anche con le maggioranze qualificate di cui all'art. 1136 comma 2° c.c. ovvero, in sede giudiziale, anche nell'interesse di uno solo dei condòmini che ponga tali presupposti a fondamento della domanda. Con la precisazione che la verifica dell'asserito errore dovrà in tal caso essere riferita ai parametri convenzionali a suo tempo fissati nella delibera di approvazione.


Applicando tali principi al caso di specie, il Tribunale di Cagliari ha concluso per l'accoglimento parziale della domanda di rettifica, con riferimento ai millesimi di proprietà ingiustamente attribuiti al condòmino in relazione al lastrico solare. Quest'ultimo, infatti, ex art. 1117 c.c., deve ritenersi parte comune, salvo che il contrario risulti dal titolo. E nel caso di specie, non risulta allegata o dimostrata l'esistenza di atti negoziali idonei a superare la presunzione di bene comune del lastrico solare.


Respinte, sul punto, le difese del condominio circa la natura contrattuale delle tabelle millesimali e la conseguente impossibilità di rettifica o modifica su domanda di un solo condòmino. Anche ipotizzando sussistente tale presupposto – conclude il giudice sardo – esso sarebbe comunque superato dall'ultimo comma dell'art. 69 disp. att. c.c., che estende alle tabelle millesimali di carattere convenzionale la nuova disciplina in materia di rettifica e modifica giudiziale.


Fonte articolo: Condominioweb.com

Pignoramento illegittimo: il creditore risarcisce i danni da stress


La domanda al risarcimento dei danni subiti dal debitore per una procedura illegittima da parte del creditore o dell'Ente, può essere avanzata ai sensi dell'art. 96, comma secondo, cod. proc. civ. e presuppone perciò l'istanza di parte, nonché l'accertamento dell'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito il provvedimento viziato e della mancanza della normale prudenza in capo all'Agente della riscossione. Ne consegue che, però, non sono risarcibili le insoddisfazioni costituenti conseguenze non gravi ed insuscettibili di essere monetizzate perché bagatellari”. 


Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 12413 del 16 giugno 2016 in merito alla responsabilità del creditore per aver attivato una procedura illegittima. 



IL CASO

Il Tribunale di Taranto, accogliendo le domande di Tizia nei confronti della Società Gestione Entrate e Tributi, dichiarava la nullità dell'iscrizione di un atto amministrativo e condannava la società al pagamento della somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. Avverso tale pronuncia, la società proponeva impugnazione in appello; la corte territoriale, con sentenza rigettava la domanda e confermava la condanna della società al pagamento del risarcimento del danno dovuto ai sensi dell'art. 96 cod. proc. civ. Per le ragioni esposte, la società proponeva ricorso per cassazione.


Il pignoramento immobiliare 

È una procedura che permette, nei casi in cui il debitore sia intestatario di uno o più beni immobili, di pignorare e vendere all'asta il bene per soddisfare il credito. In linea generale, i creditori possono intraprendere una procedura esecutiva per qualsiasi importo (sempre che ne abbiano una reale convenienza economica), tuttavia bisogna distinguere se ad azionare l'esecuzione forzata è un agente della riscossione (Equitalia) oppure un privato.


Nel caso di pignoramento del creditore privato, in base all'art.2740 c.c. “il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”, quindi, i creditori privati (come banche, fornitori, ecc.) potranno ipotecare e procedere alla vendita di un bene immobile del debitore, come un terreno o la casa (anche se sia la prima dove egli ha stabilito la propria residenza). In tale situazione, non esiste alcun limite quando si tratta di tali soggetti, che possono procedere, così come avviene per i pignoramenti mobiliari e presso terzi per qualunque importo, anche di basso ammontare, sempre che ne ravvisi l'utilità.


Nel caso di pignoramento di Equitalia, in questo caso sono presenti dei limiti: in base al “genere”, sarà pignorabile l'immobile, anche unico, adibito a studio professionale, oppure dato in affitto a terzi ma non l'unica casa adibita ad abitazione; in base al “valore”, prima del pignoramento dovrà sempre iscrivere ipoteca; tale ipoteca potrà essere iscritta solo per un debito superiore a 20.000 euro e, infine, il pignoramento potrà essere avviato solo per un debito superiore a 120mila euro.


Il pignoramento illegittimo. In generale, il pignoramento di un immobile è sempre lecito quando sorretto da un valido titolo esecutivo (ossia una sentenza, un contratto di mutuo, un decreto ingiuntivo, ecc.). Diverso è, però, il discorso quando il titolo esecutivo viene revocato a seguito di un'opposizione, perché ritenuto insussistente o illegittimo. In tal caso, non solo l'eventuale pignoramento deve essere revocato, ma al debitore che, per causa di tale pignoramento, non abbia potuto pagare i propri debiti con lo stesso o altri soggetti, è dovuto anche un risarcimento del danno (Cass. sent. n. 10518/2016).


L'orientamento della responsabilità aggravata. In giurisprudenza è ormai pacifico che l'art. 96 c.p.c. disciplina una responsabilità in capo al soccombente che, all'interno del processo, abbia compiuto un'attività qualificabile quale "illecito processuale", quando il comportamento assume modalità illecite sostanziandosi nell'abuso del diritto di agire o resistere in giudizio. Una responsabilità speciale rispetto alla generale norma di cui all'art. 2043 c.c. e devoluta al giudice cui spetta conoscere il merito della controversia (Cass. n. 17523 del 2011). Sicché, per le su esposte considerazioni, secondo una recente sentenza (Corte di Cassazione con la sentenza n. 6533 del 5 aprile 2016) "non sussiste alcuna ragione per cui le norme sulle responsabilità patrimoniali non possano trovare un limite nell'abuso del diritto".


A dire della Cassazione, il novellato art. 111 Costituzione (giusto processo) comporta l'ingiustizia di un processo che sia esito di un abuso del diritto, derivante dall'utilizzo, in modo sproporzionato, dei mezzi di tutela. Quindi il mancato utilizzo della "normale prudenza" nell'aggressione dei beni del debitore - prevista dall'articolo 96 c.2 del codice di procedura, - e cioè il superamento di un terzo del valore del credito (articolo 2875 del codice civile), farà scattare le sanzioni processuali; ne discende che iscrivere un'ipoteca sproporzionata comporta la responsabilità aggravata del creditore.


I precedenti del risarcimento del danno da stress da Fisco 

Nel momento in cui viene provato che l' ha agito per negligenza (colpa), attivando in questo senso una serie di attività a danno del contribuente (pignoramento), deve essere risarcito il danno da stress. Questo è il principio di diritto emerso dalla Ctp di Roma con la sentenza 52/26/08 che ha condannato l' per lite temeraria. Nel caso in esame il debito riveniva dalle imposte non pagate da una signora la cui eredità era stata esplicitamente rifiutata dalla figlia. I giudici, pertanto, oltre a rifarsi all'articolo 2043 del Codice civile e 96 co. 2 c.p.c. , hanno voluto riconoscere al contribuente anche un danno morale connesso al "patema d'animo e allo stress" determinati dalla tenace resistenza delle Entrate, nonché dell'impossibilità di rinegoziare il contratto di mutuo sull'immobile a causa della illegittima iscrizione ipotecaria.


In altra pronuncia Ctp di Milano n. 314/15/07 è stato evidenziato che l'Ufficio, pur trovandosi dalla parte del torto, ha continuato ad avanzare in maniera scriteriata le pretese verso il cittadino. Tuttavia, le argomentazioni delle Entrate, "sono state considerate come inopportune e gravemente pregiudizievoli per la conservazione di un corretto rapporto tra e contribuente, trattato senza il doveroso rispetto e addirittura con ironia in deciso contrasto, quindi, con quanto previsto dallo Statuto del contribuente".


Il ragionamento della Corte di Cassazione con la sentenza n. 12413 del 16 giugno 2016. La sentenza in esame non esclude a priori il risarcimento da stress, ma lo elimina solo in quei casi in cui non vi sia un pregiudizio effettivo e percepibile. Invece, laddove le conseguenze del comportamento illegittimo di Equitalia siano gravi e possano essere quantificate, allora è possibile chiedere l'indennizzo al giudice, insieme all'atto di ricorso. Questo è il tipico caso di un pignoramento immobiliare illegittimo (es. ipoteca su una casa che blocca le trattative di vendita).


Affinché sia possibile richiedere il risarcimento, occorre chi vi sia la c.d. responsabilità processuale aggravata dell'Ente intesa come mala fede o colpa grave. In questi casi, ne discende che “il giudice tributario può conoscere anche la domanda risarcitoria proposta dal contribuente ai sensi dell'art. 96 cod. proc. civ., , potendo, altresì, liquidare in favore di quest'ultimo, se vittorioso, il danno derivante dall'esercizio, da parte dell' finanziaria, di una pretesa impositiva "temeraria", in quanto connotata da mala fede o colpa grave, con conseguente necessità di adire il giudice tributario, atteso che il concetto di responsabilità processuale deve intendersi comprensivo anche della fase amministrativa che, qualora ricorrano i predetti requisiti, ha dato luogo all'esigenza di instaurare un processo ingiusto”. (In tal senso Cass. S.U. n. 13899/13, nonché da Cass. n. 3003/14, n. 27534/14 e, da ultimo, ord. n. 3376/16).


Le conclusioni. Alla luce di tutto quanto innanzi esposto,la Corte di Cassazione con la pronuncia in commenti ha rigettato il ricorso della contribuente in quanto, per i giudici, "non erano risarcibili comunque i danni consistenti in meri disagi, fastidi, disappunti, ansie e ogni altra espressione di insoddisfazione, costituenti conseguenze non gravi e insuscettibili di essere monetizzate perché bagatellari".


Fonte articolo: Condominioweb.com

Il condomino che effettua i lavori risarcisce in caso di infiltrazioni


La mancata locazione di un immobile per cause imputabili al condominio (infiltrazioni di acqua nell’appartamento, proveniente dalle coperture condominiali) ne comporta il mancato godimento per colpa altrui e, quindi, il dovere di risarcire il danno.


In una recente sentenza (la 10870/2016) la Corte di cassazione ha dato ragione ad un condòmino che aveva citato in giudizio il condominio per sentirlo condannare al rifacimento dei lavori di alcune coperture condominiali e al risarcimento dei danni derivanti dalle infiltrazioni presenti all’interno di un suo immobile di proprietà che non avevo potuto locare, causandogli un notevole pregiudizio economico.

I GRADI DEL GIUDIZIO

Condannato, in primo grado, il condominio al rifacimento dei lavori indicati dalla Ctu nonché al pagamento dei danni in favore dell’attore ed estromessa la "terza chiamata (ditta che aveva eseguito i lavori)" in base all’articolo 1667 del Codice civile, la Corte di appello rigettava la domanda di risarcimento danni in quanto, pur essendo un danno derivante dal mancato godimento di un diritto reale, l’attore non aveva fornito alcun elemento per la sua quantificazione.


La ditta appaltatrice veniva così obbligata al risarcimento, al posto del condominio, delle spese che avrebbe dovuto affrontare per il rifacimento delle opere ordinate dai giudici. E veniva confermata la legittimazione passiva del condominio in quanto l’attore non aveva agito in giudizio per far valere i diritti derivanti dal contratto di appalto ma in qualità di condòmino per la realizzazione dei lavori necessari alla tutela delle parti comuni dell’edificio e per il risarcimento dei danni derivanti dalle parti comuni stesse.


I giudici di legittimità, riguardo al risarcimento del danno, ribaltavano però la sentenza della Corte di appello. Appurato che le infiltrazioni lamentate avevano impedito al condòmino danneggiato - che non si era disinteressato all’utilizzo del bene - di locare l’immobile, per i giudici di legittimità il pregiudizio andava risarcito mediante ricorso ad elementi di carattere presuntivo, tra i quali quelli che emergevano dalla Ctu, con i quali poter procedere al calcolo, a sua volta presuntivo, del valore locativo dell’immobile.


Riguardo, invece, al difetto di legittimità passiva del condominio, osservava la Corte che, dagli atti di causa, si evinceva che il danneggiato non aveva inteso far valere in giudizio le garanzie e le azioni discendenti dal contratto di appalto, bensì aveva agito in qualità di condòmino per ottenere l’esecuzione dei lavori per la tutela delle parti comuni, nonché per il risarcimento dei danni derivati dalle stesse parti. Per queste motivazioni la Cassazione rigettava il ricorso incidentale del condominio e dava pienamente ragione al condòmino danneggiato.


Fonte articolo: Quotidianocondominio.ilsole24ore.com, vetrina web

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