Agevolazioni "prima casa": verande e posto auto sono superficie coperta



Agevolazioni prima casa: verande e posto auto rientrano nella superficie coperta.
Ai fini della determinazione delle agevolazioni "prima casa" verande e posto auto non costituiscono una superficie pertinenziale bensì rientrano nel calcolo della superficie coperta.


I chiarimenti forniti dalla Commissione Tributaria vengono confermati dalla Corte di Cassazione ed il contribuente riesce ad ottenere le agevolazioni richieste in sede di acquisto.



L'immobile di lusso perde le agevolazioni 

Tutto nasce dalla richiesta di agevolazioni fiscali "prima casa" per l'acquisto di un abitazione monofamiliare a Forte dei Marmi. L'Agenzia delle Entrate sospetta che si tratti di un immobile di lusso che, come tale, non potrebbe godere del trattamento di favore e, conseguentemente, scatta l'avviso di liquidazione per le maggiori imposte di registro, ipotecaria e catastale, con applicazione d'interessi ed irrogazione di sanzioni. Ad entrare in gioco è il Dm 2 agosto 1969 che indica i parametri che qualificano le "abitazioni di lusso"; il problema di fondo riguarda le modalità di determinazione della superficie dell'immobile.


Quando l'immobile è "di lusso" 

Il decreto, all'articolo 5 "Costruzioni aventi come pertinenza un'area scoperta della superficie di oltre sei volte l'area coperta" stabilisce testualmente che devono essere considerate di lusso "le case composte di uno o più vani costituenti unico alloggio padronale aventi superficie utile complessiva superiore a mq. 200 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine) ed eventi come pertinenza un'area scoperta della superficie di oltre sei volte l'area coperta". La norma, quindi, stabilisce che l'immobile debba essere considerato "di lusso" a due condizioni: che abbia una superficie utile superiore ai 200 mq ed un'area pertinenziale scoperta di oltre sei volte l'area coperta. A questo punto si tratta di stabilire se l'immobile abbia o meno queste caratteristiche.


Il parere dell'acquirente 

L'acquirente ritiene di avere diritto di godere delle agevolazioni prima casa e in quanto, ai fini della determinazione della superficie coperta dell'immobile, andrebbero incluse le due verande e la pensilina utilizzata per la copertura del posto auto, con la conseguenza che il rapporto intercorrente tra superficie coperta e pertinenza doveva essere conteggiato a favore del contribuente.


Il parere dell'Agenzia 

L'Agenzia delle Entrate concentra la propria attenzione sul concetto di "superficie coperta" e punta i riflettori sulle superfici pertinenziali. Secondo l'Erario per "superficie coperta di una abitazione" deve intendersi, ai sensi dell'art. 1 della parte I della tariffa, nota II- bis del Dpr 131/1986 in relazione all'art. 5 del Dm 2/8/1969 e all'art. 360, Co. I n. 3 c.p.e. "la copertura offerta da una struttura di tipo permanente assimilabile ad un tetto". A questo punto l'iter logico seguito dall'Erario è il seguente: verande e posto auto non dovevano essere considerate come "superfici coperte" ma dovevano essere conteggiate all'interno delle aree pertinenziali. Di conseguenza, l'immobile doveva essere considerato "di lusso" in quanto la superficie pertinenziale era oltre sei volte l'area coperta.


Il parere della Commissione Tributaria 

La tesi del contribuente viene accolta dalla Commissione Tributaria Provinciale e confermata dalla Sez. 18 della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con la sentenza del 12 novembre 2010 n. 111. Secondo la Ctr le due verande ed il posto auto dovevano essere considerate come "superfici coperte" in quanto il posto auto era protetto da una tettoia in ferro coperta con plastica e le due verande presentavano una struttura, caratterizzata da un'intelaiatura in ferro, infissa nel pavimento ed al muro dell'edificio. In definitiva, le strutture presentavano "i caratteri di solidità ed immobilizzazione della costruzione"; irrilevanti i materiali utilizzati e la circostanza che le strutture potessero essere rimosse.


Le verande, poi, erano state oggetto di un permesso a costruire in sanatoria, previo pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione. Si trattava, quindi, di strutture permanenti ed inamovibili per cui la relativa superficie andava conteggiata, per l'appunto tra quella "coperta", con il risultato che l'immobile non poteva essere considerato, dal punto di vista fiscale, come "casa di lusso" in quanto la superficie pertinenziale doveva essere epurata da quella relativa al posto auto e dalle due verande.


Il parere della Cassazione 

La quinta sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza del 18 maggio 2016 n. 10190, conferma il verdetto della Commissione Tributaria non solo dando partita vinta al contribuente ma addirittura condannando l'Agenzia al pagamento delle spese di giustizia quantificate in 4.000 euro oltre accessori. Ai fini dell'art. 5 del Dm 2 agosto 1969 per superficie utile dell'immobile si intende la superficie utile complessiva abitabile ovvero quella "preordinata a soddisfare una esigenza necessaria dell'edificio principale al quale è inscindibilmente legata da vincolo di funzionalità". In parole povere, verande e posti auto concorrono a formare la superficie coperta.


Fonte articolo: Ilsole24ore.com il Quotidiano del Condominio, vetrina web

 

Le spese condominiali gravano sul proprietario e non sull'affittuario


È il proprietario dell’immobile che deve pagare le spese condominiali e non l’inquilino, a prescindere dagli accordi tra questi intercorsi e formalizzati nel contratto di affitto; per cui, se anche il conduttore non rispetta i patti e non versa all’amministratore le quote condominiali che ricadono su di lui, il decreto ingiuntivo andrà effettuato e notificato contro il padrone di casa.


Spetterà poi a quest’ultimo, eventualmente, agire contro l’inquilino ed, eventualmente, chiederne lo sfratto. Lo ha chiarito il Tribunale di Bari con una recente sentenza (n. 1355/2016). 

 

L’obbligo del pagamento delle spese di condominio grava solo sul locatore, mentre gli accordi sulla divisione di tali spese, fatti tra questi e il conduttore all’interno del contratto di locazione, hanno effetti solo tra le parti e non anche per il condominio medesimo. La conseguenza è che l’azione giudiziaria non si potrà mai intraprendere contro l’inquilino che pur continua a vivere dentro l’appartamento e si rifiuta di pagare.


Qualora il decreto ingiuntivo dovesse essere notificato al conduttore, quest’ultimo potrebbe opporsi (dovrebbe farlo entro e non oltre 40 giorni dalla notifica dell’atto) e ottenere, così, dal giudice, l’annullamento dell’obbligo di pagamento. Resta però il fatto che un secondo decreto ingiuntivo glielo potrà notificare – questa volta legittimamente – il padrone di casa, per via dell’inadempimento degli accordi contrattuali. In alternativa, potrebbe arrivare anche un ordine di sfratto per morosità. Difatti lo sfratto non consegue solo al mancato pagamento del canone di affitto, ma anche agli oneri accessori come appunto le spese condominiali (almeno per quanto riguarda la gestione ordinaria).


Tali indicazioni sono state fornite anche dalla Cassazione che, sull’argomento, ha affermato in passato che è tenuto a pagare gli oneri condominiali solo il proprietario dell’unità immobiliare e non il conduttore, anche se questi si comporta in apparenza come se fosse il proprietario, generando negli altri condomini la convinzione di avere la titolarità dell’immobile. L’apparenza del diritto, infatti, non rileva, ma contano solo le carte in catasto.


Fonte articolo: Laleggepertutti.it

Ultime disposizioni sulla validità delle compravendite immobiliari

Oggi ci occupiamo di alcune recenti disposizioni e sentenze che aggiornano il settore delle compravendite immobiliari.


In particolare vedremo se la stipula del contratto preliminare è valido nei casi in cui:

- mancano i titoli edilizi;
- l'immobile grava di ipoteca o è stato pignorato;
- l'immobile grava di ipoteca o è stato pignorato e si voglia procedere al "rent to buy".



PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA PRIVO DEI TITOLI EDILIZI

Non è nullo, ed è comunque eseguibile in forma specifica, il contratto preliminare di compravendita immobiliare che non rechi le cosiddette "menzioni urbanistiche", vale a dire quei contenuti, in ordine ai titoli edilizi in forza dei quali l’edificio promesso in vendita è stato costruito o ristrutturato, che è prescritto a pena di nullità per la stipula del contratto definitivo dalla legge 47/1985 e dal Dpr 380/2001.
È quanto deciso dalla Cassazione nella sentenza 9318 del 9 maggio 2016, in riforma della sentenza 195/2011 della Corte d’Appello di Lecce, andata in segno contrario.


Come noto, gli atti traslativi della proprietà di edifici devono contenere, a pena di nullità, talune menzioni o dichiarazioni: ad esempio, la attestazione che l’edificio è stato costruito prima del settembre 1967, la menzione dei titoli edilizi che hanno abilitato le costruzioni post 1967, la menzione delle domande di condono edilizio e dei relativi versamenti di oblazioni e oneri, eccetera. 

Quanto poi ai contratti di compravendita di terreni, occorre allegare ad essi il certificato di destinazione urbanistica e attestare, nel corpo del contratto, che le prescrizioni degli strumenti urbanistici non sono variate dalla data di rilascio di detto certificato.


Si pone dunque il tema se tutto questo apparato di dichiarazioni debba essere contenuto anche nel contratto preliminare, e ciò anche in vista del fatto che, in caso di inadempimento all’obbligo di stipula del contratto definitivo assunto con il contratto preliminare, il contraente non inadempiente può domandare al giudice (ai sensi dell’articolo 2932 del Codice civile) l’emanazione di una sentenza la quale tenga luogo del contratto definitivo che non è stato spontaneamente stipulato a causa dell’inadempimento di uno dei contraenti del contratto preliminare.


La risposta è negativa: la mancanza nel preliminare dei contenuti che sono prescritti per la validità del contratto definitivo non inficia la validità del contratto preliminare e la sua eseguibilità in forma specifica, in quanto ben può il contraente non inadempiente integrare, nel corso del giudizio, i dati utili al trasferimento immobiliare e che manchino nel contratto preliminare. 
In sede di giurisprudenza di legittimità è stato infatti più volte affermato che, per ottenere la sentenza di esecuzione in forma specifica di cui all’articolo 2932 del Codice civile, non è necessario che nel contratto preliminare siano inserite le dichiarazioni urbanistiche richieste, a pena di nullità del contratto definitivo di compravendita: in tal senso si sono espresse non solo le Sezioni Unite nella sentenza 11 novembre 2009, n. 23825, ma anche diverse sentenze delle sezioni semplici (a cominciare dalla 628/2003 per giungere alla 15947/2015, passando attraverso la 17028/2012 e la 28456/2013). La ragione è che (per utilizzare le parole delle Sezioni Unite) tali dichiarazioni non costituiscono un "presupposto della domanda, bensì una condizione dell’azione, che può intervenire anche in corso di causa e sino al momento della decisione della lite". 


Questo significa, in sostanza, che la sentenza di esecuzione in forma specifica può essere pronunciata anche nel caso in cui le dichiarazioni in questione non siano state inserite fin dall’origine nel testo del contratto preliminare, purché esse siano rese nel corso del giudizio, e comunque prima dell’emissione della sentenza che giudica sulla domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare. 


COMPRAVENDITA immobile PIGNORATO O SU CUI GRAVA ipoteca  

È vietato stipulare una compravendita immobiliare che ha per oggetto un immobile comprato in corso di costruzione, senza che sussista un titolo irrevocabilmente idoneo alla cancellazione dell’ipoteca o del pignoramento che gravino sull’immobile in questione (lo impone l’articolo 8 del Dlgs 122/2005): non si può quindi procedere al rogito per il solo fatto dell’avvenuta estinzione del debito a cui garanzia è stata iscritta l’ipoteca, in quanto il procedimento di cancellazione “automatica” dell’ipoteca, previsto dall’articolo 40-bis del Testo unico bancario (Tub), consente alla banca, nonostante l’avvenuta estinzione del debito, di domandare (nei 30 giorni successivi alla data di estinzione del predetto debito) la "permanenza" dell’ipoteca.
È senz’altro questo il principale chiarimento che deriva dai nuovi “orientamenti” in tema di diritto civile elaborati dalla Commissione di diritto civile del Comitato notarile del Triveneto e presentati a un recente convegno.

L’orientamento in questione fa dunque riferimento al Dlgs. 20 giugno 2005, n. 122, il quale contiene una serie di prescrizioni a tutela della persona fisica che acquisti da un costruttore un edificio (o sua porzione) da costruire o in corso di costruzione (ad esempio: la fideiussione a garanzia degli acconti e l’assicurazione postuma decennale): è una normativa che, dunque, non riguarda né i fabbricati già costruiti (pur se a venderli sia l’impresa costruttrice) né i terreni.


La predetta norma comprende, nel suo perimetro applicativo, anche la compravendita che abbia per oggetto un immobile già finito ed agibile, se però si tratti di un contratto che costituisce esecuzione di un precedente contratto preliminare (stipulato quando l’immobile era ancora da costruire o in corso di costruzione). A tal fine, l’esistenza di pagamenti eseguiti dall’acquirente quando ancora l’immobile si trovava in fase di costruzione (pagamenti che ora debbono risultare, per dichiarazione espressa delle parti, dall’atto di compravendita) costituisce – secondo i notai triveneti – un indizio rilevante circa l’esistenza di un accordo preliminare intervenuto tra il costruttore e l’acquirente.


Inoltre, la norma in questione comprende sia l’ordinario atto di compravendita ad "effetti traslativi immediati" (e cioè la compravendita per effetto della quale si ha l’istantaneo trasferimento della proprietà del bene compravenduto dal venditore al compratore) sia il meno frequente caso della cosiddetta vendita con "effetti traslativi differiti", e cioè nella quale il trasferimento della proprietà non si ha nel momento di stipula della compravendita, ma posteriormente: è il caso, ad esempio, della vendita del bene “futuro” o della vendita "con riserva della proprietà".


Ebbene, secondo l’orientamento del notariato triveneto, quando l’articolo 8, Dlgs 122/2005, vieta la stipula dell’atto di compravendita degli immobili in questione "se anteriormente o contestualmente alla stipula, non si sia proceduto alla suddivisione del finanziamento in quote o al perfezionamento di un titolo per la cancellazione o frazionamento dell’ipoteca a garanzia o del pignoramento gravante sull’immobile": la norma in questione deve ritenersi applicabile non solo alle ipoteche volontarie (e cioè quelle concesse a fronte di un finanziamento) ma, in via estensiva, anche alle ipoteche giudiziali (pure se iscritte in relazione per debiti non discendenti da un contratto di finanziamento).  Il divieto di stipula cessa se si abbia il perfezionamento di un titolo per la cancellazione o la restrizione dell’ipoteca oppure la suddivisione del finanziamento in quote di mutuo con frazionamento dell’ipoteca a garanzia di dette quote e con accollo da parte dell’acquirente della quota del mutuo così frazionato. 
Dato che quindi il procedimento di cancellazione dell’ipoteca disciplinato dall’articolo 40-bis Tub non avviene sulla base di un titolo irrevocabilmente idoneo alla cancellazione dell’ipoteca, in quanto la banca può comunque pretendere – come detto – la "permanenza" dell’ipoteca nonostante l’estinzione del debito, ogni qualvolta vi sia l’esigenza di stipulare una compravendita di un immobile di cui al Dlgs 122/2005, occorre ricorrere al procedimento ordinario di cancellazione senza potersi far luogo al procedimento abbreviato di cui all’articolo 40-bis Tub.

 

COMPRAVENDITA IMMOBILE PIGNORATO O IPOTECATO IN CASO DI RENT TO BUY 

Il divieto di stipula di un contratto di compravendita che ha ad oggetto un immobile ipotecato o oggetto di pignoramento, venduto dal costruttore e acquistato da una persona fisica quando non era ancora costruito o era in corso di costruzione (di cui all'articolo 8, Dlgs 122/2005), trova una particolare declinazione nel caso di contratto di rent to buy, vale a dire il contratto con il quale un soggetto ottiene il godimento di un immobile con l’opzione di acquisirlo in proprietà imputando a prezzo i canoni versati durante il periodo di godimento.


L’articolo 23, comma 4, Dl 133/2014, disciplina i contratti di rent to buy, e stabilisce che anche al contratto di rent to buy - nonostante non si tratti di un contratto traslativo della proprietà dell’immobile - si applica, in presenza di un’ipoteca (o anche di un pignoramento) sull’edificio che ne è oggetto, il divieto di stipula discendente dall’articolo 8 del Dlgs. 122/2005, qualora sussistano i presupposti applicativi di detto Dlgs 122, vale a dire che:

- il contratto abbia a oggetto un’abitazione in corso di costruzione nel momento in cui il contratto venne stipulato (evidentemente, nella forma di contratto preliminare, dato che appunto il rent to buy ha per oggetto immediato il godimento di un immobile); 
- il locatore sia l’impresa costruttrice; 
- il conduttore sia una persona fisica. 

In altre parole, ricorrendo questi presupposti vi è il divieto di stipula del contratto di rent to buy anche se esso attribuisce il solo godimento dell’immobile caso per caso considerato.
Come già accennato, nella maggior parte dei casi, l’immobile oggetto del contratto in questione è un edificio già completato nella costruzione e dichiarato agibile, per cui la norma che vieta la stipula del contratto di rent to buy trova applicazione nei casi in cui il rent to buy sia stato preceduto da un contratto preliminare perfezionato quando l’immobile era ancora in corso di costruzione e le parti si siano poi accordate di dare attuazione agli impegni assunti con detto preliminare appunto stipulando, in luogo del previsto atto traslativo definitivo, un contratto di rent to buy.
La disposizione in commento, inoltre, si presta a trovare applicazione anche nel caso di un contratto preliminare (perfezionato quando l’immobile che ne è oggetto era ancora in corso di costruzione) con il quale le parti si siano impegnate proprio alla stipula di un rent to buy ovvero nel caso di un rent to buy avente per oggetto un edificio ancora in corso di costruzione, e non ancora dichiarato agibile e, come tale, rientrante a pieno titolo nell’ambito di applicazione del Dlgs 122/2005.


Fonti articolo: IlSole24Ore, vetrina web

Chi paga le spese straordinarie dell'immobile appena acquistato?

Nel caso di vendita di un appartamento la giurisprudenza di legittimità ha stabilito, già da qualche anno, che per stabilire il soggetto sul quale grava l'onere di partecipare alle spese straordinarie occorre verificare il momento in cui è stata approvata la delibera che approva i lavori definitivi con la commissione del relativo appalto e la ripartizione dei relativi oneri.


Pertanto se questa è stata adottata dopo la vendita dell'appartamento il soggetto obbligato a partecipare alla spesa è l'acquirente “non rilevando l'esistenza di una deliberazione programmatica e preparatoria adottata anteriormente a tale stipula”. (Cass. 2.5.2013 n. 10325).


IL CASO

Gli acquirenti di un appartamento ubicato in un edificio condominiale impugnano la sentenza di primo grado che li ha condannati al pagamento delle spese straordinarie approvate, a loro parere, con delibera assembleare adottata prima della compravendita dell'immobile avvenuta in data 27 ottobre 2011. Gli acquirenti, pertanto, si oppongono al pagamento di tale spesa sostenendo che doveva restare a carico di parte venditrice.


In realtà, nel giudizio di primo e secondo grado, è emerso che la delibera adottata prima della compravendita aveva solo natura preparatoria, mentre la delibera definitiva che conferiva incarico all'impresa per l'esecuzione dei lavori straordinari (sostituzione dell'impianto di ascensore) era stata adottata dopo la compravendita e pertanto la stessa doveva considerarsi a carico del proprietario dell'immobile e cioè dell'acquirente.


Tale principio è stato ampliamente condiviso dalla sentenza del Tribunale di Mantova che ha effettuato un'articolata ricostruzione dei criteri che governano la riscossione dei contributi condominiali, ed aderendo ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha osservato che l'obbligo di contribuire alle spese comuni grava sul soggetto proprietario dell'immobile al momento dell'esecuzione dei lavori indipendentemente da chi fosse il proprietario al momento dell'adozione della delibera preparatoria che approva l'opera (Cass. 26.1.2000 n. 857; Cass.18.4.2003 n. 6223; Cass. 9.9.2008 n. 23345; Cass. 9.11.2009 n. 23686).


Un ulteriore contributo chiarificatore per stabilire il soggetto su cui grava l'onere di contribuire alle spese condominiali è stato fornito, nel corso degli ultimi anni, sempre dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale assume rilevanza anche la natura delle spese necessarie per la manutenzione delle parti comuni dell'edificio.
Infatti stando alle pronunce più recenti occorrerebbe fare distinzione fra spese ordinarie necessarie per la manutenzione, conservazione e godimento delle parti e dei servizi comuni, e spese straordinarie che comportino, ad esempio, un'innovazione oppure un onere particolarmente rilevante.


LE SPESE ORDINARIE 

Per quanto riguarda le spese ordinarie l'obbligazione sorge al momento del compimento dell'intervento ritenuto necessario dall'amministratore, a prescindere dal momento in cui è stata adottata la delibera assembleare. Mentre per le spese straordinarie solo la deliberazione dell'assemblea, chiamata a determinare quantità, qualità e costi dell'intervento, assumerebbe altresì valore costitutivo della relativa obbligazione in capo a ciascun condomino. (Cass., 3 dicembre 2010, n. 24654; Cass., 11 novembre 2011, n. 23682; Cass., 2 maggio 2013, n. 10235).


LE SPESE STRAORDINARIE

In base a tale ragionamento non vi è alcun dubbio, quindi, che se occorre stabilire chi è il soggetto sul quale grava l'onere di partecipare alle spese straordinarie (venditore o acquirente) bisogna verificare chi è il proprietario al momento dell'adozione della delibera assembleare definitiva che conferisce l'incarico anche all'impresa appaltatrice che eseguirà i lavori.


Tanto è bastato al Tribunale di Modena per respingere l'appello e confermare la sentenza di primo grado condannando l'acquirente, già proprietario dell'immobile al momento dell'approvazione della delibera assembleare che ha approvato definitivamente i lavori straordinari (sostituzione dell'impianto di ascensore), a partecipare pro quota alla spesa.


Fonte articolo: Condominioweb.com

Quando serve la forma scritta nella risoluzione dell'affitto

La risoluzione consensuale di un contratto di locazione relativo ad un immobile ad uso abitativo richiede necessariamente l'adozione della forma scritta.


Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 7638 depositata il 18 aprile scorso.

IL CASO

Il locatore aveva agito in via monitoria nei confronti del conduttore ottenendo dal giudice il pagamento di circa 1300 euro a titolo di canoni di locazione immobiliare. L'opposizione proposta dal conduttore veniva accolta dal tribunale con sentenza, successivamente confermata anche in sede di gravame. Ora, la Suprema Corte, accogliendo il ricorso del locatore, ha cassato con rinvio la pronuncia emessa dal giudice d'appello e fondata sulla decisiva affermazione che lo scioglimento del contratto di locazione per mutuo dissenso fosse avvenuto per comportamenti concludenti e comunque in forma verbale. La Corte ha ritenuto così fondate le ragioni del ricorrente, il quale, nel motivi di ricorso, aveva sostenuto che, essendo necessaria ad substantiam la forma scritta per la stipulazione del contratto di locazione di immobili a scopo di abitazione, altrettanto è da ritenersi per il contratto di risoluzione consensuale di esso, non essendo possibile ritenere sussistente una sua tacita risoluzione.


A giudizio della Corte, deve ritenersi assolutamente pacifico nella giurisprudenza di legittimità il principio per cui, in caso di contratti per la cui valida stipulazione è richiesta la forma scritta ad substantiam – tra i quali può senz'altro annoverarsi il contratto di locazione ad uso abitativo ai sensi dell'articolo 1, comma 4, della Legge n. 431/1998 – il mutuo dissenso deve rivestire la medesima forma prevista per la conclusione del negozio. 


Deve infatti ritenersi superato il precedente orientamento secondo cui la risoluzione consensuale del contratto di locazione non sarebbe soggetta a vincoli di forma, orientamento del resto riferito e riferibile ai contratti di locazione non soggetti al requisito di validità della forma scritta, e cioè anteriori al 1998 ovvero non aventi ad oggetto immobili destinati ad uso abitativo. 


L'adozione del requisito formale, il quale può ritenersi integrato e soddisfatto soltanto in presenza di un documento contenente l'espressa e specifica dichiarazione negoziale delle parti, riguarda tuttavia esclusivamente la risoluzione del contratto di locazione per mutuo dissenso e non anche la mera disdetta contrattuale, istituto in ordine al quale, conclude la Cassazione, vale invece il principio della libertà di forma come confermato in varie pronunce.


Fonte articolo: IlSole24Ore.QuotidianodelCondominio, vetrina web

Quando può risolversi il contratto di comodato?

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che in materia di comodato di immobile destinato a casa familiare solo la necessità dell'uso diretto da parte del comodante ed il deterioramento delle sue condizioni economiche rappresentano le uniche condizioni che consentono al comodante di porre fine al comodato.


La sentenza a Sezioni Unite della Cassazione risolve un conflitto giurisprudenziale sorto nell'ultimo decennio in tema di contratto di comodato avente ad oggetto un immobile al quale è stato imposto, per accordo fra le parti, un vincolo di destinazione d'uso familiare.

 

In pratica, un padre, proprietario di un appartamento, lo concede in comodato al figlio dopo il suo matrimonio affinché utilizzi lo stesso come casa familiare. Dopo qualche anno il padre cita in giudizio il figlio e la nuora. Resiste in giudizio solo la nuora alla quale, dopo la separazione, era stata assegnata la casa familiare. La Corte di Cassazione, attraverso la sentenza del 2014, risolve un contrasto giurisprudenziale in materia di immobile concesso in comodato da destinare a casa familiare sorto nel lontano 2004.


Il comodante impugna la sentenza della Corte d'Appello che aveva erroneamente condiviso il principio espresso dalla Cassazione nel 2004 (Cass. sez. Unite, 21.7.2004 n. 13603), puntualizzando che, secondo lui, il contratto di comodato aveva natura provvisoria dato che, appena possibile, il figlio avrebbe dovuto cercare una nuova soluzione abitativa.


Tuttavia la Cassazione ha respinto il ricorso del comodante, condivide in parte il principio sancito nella sentenza del 2004, individuando una nuova soluzione interpretativa che riesca a contemperare, ove possibile, due opposte esigenze: quello dell'assegnatario della casa familiare a mantenere la stessa abitazione anche nell'interesse della prole minore o non autosufficiente, e quello del comodante di rientrare in possesso dell'immobile concesso in comodato ove ricorrano particolari circostanze (uso diretto e deterioramento delle proprie condizioni economiche). Ma, data la complessità della vicenda, è bene procedere per gradi.


La Cassazione (n. 13603/2004) richiamata dalla Corte d'Appello nella sentenza impugnata dal comodante e conclusasi con la sentenza in commento (Cass. Sez.Un. n.20448/2014) evidenziava che: nel momento in cui il contratto di comodato sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, formato o in via di formazione, si è al cospetto di un contratto a tempo indeterminato caratterizzato dal fatto che è stato impresso un vincolo di destinazione al bene strettamente connesso alle esigenze abitative familiari rilevando che, oltrepassando anche eventuali crisi coniugali, la cessazione del vincolo non può farsi dipendere solo dal recesso ad nutum del comodante.


La sentenza del 2004 delle Sezioni Unite è stata seguita da altre isolate pronunce, ma la Cassazione si ritrova a tal punto; nel 2013 però la Cassazione ha ritenuto maturi i tempi per capire fino a quando possa durare tale vincolo, e soprattutto come possano essere contemperate le due opposte esigenze: quella dell'assegnatario della casa familiare a conservare la sua abitazione, e quella del comodante a rientrare in possesso del bene concesso in comodato magari per nuove e sopravvenute esigenze personali giustificate anche da un improvviso deterioramento delle sue condizioni economiche.


Per questo la Cassazione con ordinanza 15113 del 2013 ha rimesso il ricorso al Primo Presidente che ha sottoposto finalmente la questione alle Sezioni Unite.
Il percorso seguito dalla Cassazione per fornire una risposta a tale quesito non è stato semplice né lineare soprattutto tenendo conto del fatto che nel comodato con vincolo di destinazione a casa familiare entrano in gioco interessi costituzionalmente protetti: come quello dell'assegnatario della casa di vedere tutelato l'habitat familiare, e quello del comodante che ha subito una illimitata compressione del suo diritto reale.

LA SENTENZA DEFINITIVA

Solo l'intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (20448/2014) ha chiarito, almeno per ora, che il diritto del comodante, ove all'immobile concesso in locazione sia stato imposto un vincolo di destinazione a casa familiare, soccombe al cospetto della necessità di tutelare le supreme esigenze del nucleo familiare di tutelare l'habitat domestico.


Tuttavia, precisa la Cassazione, solo l'imprevisto ed urgente bisogno del comodante, giustificato dalla necessità di riservare l'immobile ad uso diretto anche a fronte del deterioramento delle sue condizioni economiche, rappresentano le uniche condizioni in grado di giustificare la richiesta di restituzione del bene da parte del comodante.


Fonte articolo: Condominioweb.com 

Criteri di classamento immobili motivati, altrimenti l'atto è nullo


Accertamenti catastali a rischio di nullità se non adeguatamente motivati: è il principio ormai costante che emerge dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, chiamata spesso, negli ultimi tempi, ad affrontare cause legate alle rettifiche operate dalla ex agenzia del Territorio. 


Il classamento di un immobile è necessario per l’attribuzione della rendita catastale, che di fatto, esprime il valore di ogni unità.

 

A questo fine, occorre considerare sia le singole caratteristiche dell’immobile (come ad esempio la dimensione, l’epoca di costruzione, la struttura e la dotazione impiantistica, la qualità e lo stato edilizio, la presenza di pertinenze comuni o esclusive, il livello di piano), sia il contesto in cui è ubicato (riscontrando il grado di urbanizzazione dell’area circostante, la presenza di infrastrutture o la vicinanza alle principali vie di comunicazione). In sintesi dunque, ogni unità immobiliare è qualificata con una determinata categoria e, in relazione alla “qualità” dell’immobile, con una specifica classe. 


Per ogni Comune è stabilita una tariffa per ogni classe che, moltiplicata per la dimensione del fabbricato (vano, metro quadrato o metro cubo) dà la rendita catastale. Gli uffici, per “aggiornare” questo valore possono rettificare la rendita sia di un singolo immobile, sia di tutte le unità presenti in un determinato quartiere o zona. Le cause che rendono necessario un riclassamento sono riconducibili a due categorie:

- la variazione subita dalla microzona comunale in cui è ubicato l’immobile, come ad esempio il miglioramento della viabilità, la realizzazione di scuole, ospedali; 
- l’esecuzione di opere a cura del possessore, volte alla ristrutturazione del fabbricato. 


Per la Cassazione (sentenza 6593/2015), a prescindere dall’impulso che ha dato avvio alla procedura di classamento, questa attività è (e resta) una procedura "individuale", che va effettuata considerando i fattori posizionali ed edilizi pertinenti a ciascuna unità immobiliare. Si tratta così di un unico criterio che consente di identificare il "parametro globale di apprezzamento" del fabbricato stesso.
Gli atti di accertamento catastali, sebbene possano dipendere da vari fattori, spesso riportano una motivazione sintetica e schematica che difficilmente risponde ai requisiti minimi per la validità dell’atto. 


La Suprema corte ha da tempo dichiarato la nullità degli atti privi di motivazione poiché questa ha carattere sostanziale e non solo formale: non si tratta infatti di un elemento utile solo a provocare la difesa del contribuente, ma circoscrive l’eventuale successivo giudizio (sentenza 20251/2015). La Ctr di Milano, sezione staccata di Brescia (sentenza 1043/67/2016), in virtù di questo principio, ha affermato che la motivazione “integrata” nella costituzione dell’ufficio, quindi dopo l’emissione dell’avviso di accertamento, non consente al contribuente di difendersi e pertanto l’atto è nullo (in questo senso anche Ctp Milano, sentenza 1419/12/2016).


Per la Ctr di Roma (sentenza 1075/21/16), non può ritenersi congruamente motivato il provvedimento che faccia riferimento a un generico scostamento del valore dell’immobile ovvero a non precisate opere edilizie eseguite. 
Occorre così che il provvedimento, per garantire il diritto di difesa, contenga:

- la menzione dei rapporti tra valore di mercato e catastale nella microzona di riferimento, qualora la modifica sia stata avviata su richiesta del Comune; 
- l’indicazione delle trasformazioni edilizie; 
- l’indicazione dei fabbricati, del loro classamento e delle caratteristiche analoghe che li rendono simili all’unità oggetto di riclassamento, quando l’atto sia conseguente a un aggiornamento o a un’incongruità rispetto ad altri immobili (sentenza 23247/2014). 


Il contribuente quindi, dovrà comprendere i motivi della variazione eseguita dall’ufficio, per riscontrarne la correttezza ed eventualmente decidere di ricorrere al giudice tributario.


Fonte articolo: IlSole24Ore, vetrina web.

Donazione nulla se il bene è indiviso fra coeredi

La donazione di un bene altrui, anche se non sia espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di causa. A meno che, nell’atto di donazione, si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell’attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio.


Ne consegue che la donazione, da parte del coerede, della quota di un bene indiviso compreso in una massa ereditaria è nulla: non si può, prima della divisione, ritenere che quel singolo bene entri a far parte del patrimonio del coerede donante.

 

È il principio di diritto sancito nella sentenza delle Sezioni unite n. 5068, depositata ieri. La Seconda Sezione della Cassazione, in ragione di una non univoca giurisprudenza di legittimità, aveva rimesso alle Sezioni unite la questione se la donazione di un bene altrui dovesse ritenersi valida, anche se inefficace (Cassazione n. 1596/2001), o nulla per il principio di divieto di donazione di beni futuri (articolo 771 del Codice civile). In quest’ultimo caso, nei beni futuri andrebbero ricompresi tutti quelli non facenti parte nel patrimonio del donante, quindi anche i beni altrui; questa è la prevalente giurisprudenza di Cassazione (sentenze n. 3315/1979, 6544/1985, 11311/1996, 10356/2009, 12782/2013). 


Tutto questo ragionamento trascina con sé la questione se la norma sul divieto di donazione di beni futuri trovi applicazione, o meno, nel caso di donazione di un bene oggetto di comunione prima che sia effettuata la divisione. Secondo le Sezioni unite nella sentenza in commento, l’appartenenza al donante del bene oggetto di donazione è elemento essenziale del contratto di donazione; pertanto, quella di cosa altrui non può essere ricondotta nello schema negoziale della donazione.


In altri termini, prima ancora che per la possibile riconducibilità del bene altrui nella categoria dei beni futuri (articolo 771, comma 1, del Codice civile), la altruità del bene incide sulla possibilità stessa di comprendere il trasferimento di un bene non appartenente al donante nello schema della donazione e, quindi, sulla possibilità stessa di realizzare la causa del contratto di donazione (e, cioè, l’incremento del patrimonio del donatario con correlativo impoverimento del patrimonio del donante).


Deve quindi affermarsi, secondo la Corte nella sua composizione più autorevole, che se il bene si trova nel patrimonio del donante al momento della stipula del contratto, la donazione è valida ed efficace. Se, invece, la cosa non appartiene al donante, questi deve assumere espressamente e formalmente nell’atto l’obbligazione di procurare l’acquisto dal terzo al donatario. La donazione di bene altrui vale, pertanto, come donazione obbligatoria, purché l’altruità sia conosciuta dal donante e tale consapevolezza risulti da un’apposita, espressa affermazione nell’atto pubblico.


Se, invece, l’altruità del bene donato non risulti dal titolo e non sia nota alle parti, non potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui. Nella stessa situazione del donante che disponga di un bene non facente parte del suo patrimonio si trova il coerede che dona uno dei beni compresi nella comunione ereditaria prima della divisione, con conseguente nullità della donazione che abbia a oggetto detto bene.


Fonte articolo: Associazionenazionaleavvocatiitaliani.it

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