Insidie del 730: come compilare spese casa e figli

Nei giorni scorsi abbiamo iniziato a parlare del 730 online precompilato; oggi approfondiamo le singole sezioni riguardanti le spese relative a casa e figli e come compilarle. 

 

GLI IMMOBILI

Nel "Quadro A" dei terreni e nel "Quadro B" dei fabbricati si sono verificate incongruenze lo scorso anno: è opportuno riscontrare nella precompilata la presenza di tutti i fabbricati posseduti, la corretta indicazione della rendita catastale e del "Codice utilizzo". Può rivelarsi utile avere un occhio di riguardo al fatto che siano correttamente riportati i dati di fabbricati oggetto di cambio di proprietà in corso d'anno: bisogna controllare che sia riportato correttamente il numero dei giorni di possesso per l'immobile interessato.


I BONUS RISTRUTTURAZIONE E RIQUALIFICAZIONE

Al debutto nella precompilata 2016 anche la prima rata dei bonus sulle ristrutturazioni (50%) e sul risparmio energetico (65%) per spese sostenute nel 2015: il dato, però, non sarà inserito direttamente in precompilata ma nel foglio illustrativo e quindi sarà il contribuente a dover verificare il dato e a scegliere se inserirlo o meno in dichiarazione. 


ASILI, UNIVERSITA' E AFFITTI PER I FIGLI

Nonostante la mole di nuovi dati arrivati quest'anno (a quelli citati nelle altre schede si aggiungono anche i rimborsi di casse sanitarie, la previdenza complementare e le spese universitarie) restano ancora tutta una serie di detrazioni che dovranno essere inserite manualmente dal contribuente. Alcuni dei casi più diffusi riguardano le famiglie con figli, che dovranno integrare nella precompilata le spese per l'asilo nido, quella per l'iscrizione ad attività sportive e le locazioni per gli studenti fuorisede.


Fonte articolo: IlSole24Ore

Quando può risolversi il contratto di comodato?

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che in materia di comodato di immobile destinato a casa familiare solo la necessità dell'uso diretto da parte del comodante ed il deterioramento delle sue condizioni economiche rappresentano le uniche condizioni che consentono al comodante di porre fine al comodato.


La sentenza a Sezioni Unite della Cassazione risolve un conflitto giurisprudenziale sorto nell'ultimo decennio in tema di contratto di comodato avente ad oggetto un immobile al quale è stato imposto, per accordo fra le parti, un vincolo di destinazione d'uso familiare.

 

In pratica, un padre, proprietario di un appartamento, lo concede in comodato al figlio dopo il suo matrimonio affinché utilizzi lo stesso come casa familiare. Dopo qualche anno il padre cita in giudizio il figlio e la nuora. Resiste in giudizio solo la nuora alla quale, dopo la separazione, era stata assegnata la casa familiare. La Corte di Cassazione, attraverso la sentenza del 2014, risolve un contrasto giurisprudenziale in materia di immobile concesso in comodato da destinare a casa familiare sorto nel lontano 2004.


Il comodante impugna la sentenza della Corte d'Appello che aveva erroneamente condiviso il principio espresso dalla Cassazione nel 2004 (Cass. sez. Unite, 21.7.2004 n. 13603), puntualizzando che, secondo lui, il contratto di comodato aveva natura provvisoria dato che, appena possibile, il figlio avrebbe dovuto cercare una nuova soluzione abitativa.


Tuttavia la Cassazione ha respinto il ricorso del comodante, condivide in parte il principio sancito nella sentenza del 2004, individuando una nuova soluzione interpretativa che riesca a contemperare, ove possibile, due opposte esigenze: quello dell'assegnatario della casa familiare a mantenere la stessa abitazione anche nell'interesse della prole minore o non autosufficiente, e quello del comodante di rientrare in possesso dell'immobile concesso in comodato ove ricorrano particolari circostanze (uso diretto e deterioramento delle proprie condizioni economiche). Ma, data la complessità della vicenda, è bene procedere per gradi.


La Cassazione (n. 13603/2004) richiamata dalla Corte d'Appello nella sentenza impugnata dal comodante e conclusasi con la sentenza in commento (Cass. Sez.Un. n.20448/2014) evidenziava che: nel momento in cui il contratto di comodato sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, formato o in via di formazione, si è al cospetto di un contratto a tempo indeterminato caratterizzato dal fatto che è stato impresso un vincolo di destinazione al bene strettamente connesso alle esigenze abitative familiari rilevando che, oltrepassando anche eventuali crisi coniugali, la cessazione del vincolo non può farsi dipendere solo dal recesso ad nutum del comodante.


La sentenza del 2004 delle Sezioni Unite è stata seguita da altre isolate pronunce, ma la Cassazione si ritrova a tal punto; nel 2013 però la Cassazione ha ritenuto maturi i tempi per capire fino a quando possa durare tale vincolo, e soprattutto come possano essere contemperate le due opposte esigenze: quella dell'assegnatario della casa familiare a conservare la sua abitazione, e quella del comodante a rientrare in possesso del bene concesso in comodato magari per nuove e sopravvenute esigenze personali giustificate anche da un improvviso deterioramento delle sue condizioni economiche.


Per questo la Cassazione con ordinanza 15113 del 2013 ha rimesso il ricorso al Primo Presidente che ha sottoposto finalmente la questione alle Sezioni Unite.
Il percorso seguito dalla Cassazione per fornire una risposta a tale quesito non è stato semplice né lineare soprattutto tenendo conto del fatto che nel comodato con vincolo di destinazione a casa familiare entrano in gioco interessi costituzionalmente protetti: come quello dell'assegnatario della casa di vedere tutelato l'habitat familiare, e quello del comodante che ha subito una illimitata compressione del suo diritto reale.

LA SENTENZA DEFINITIVA

Solo l'intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (20448/2014) ha chiarito, almeno per ora, che il diritto del comodante, ove all'immobile concesso in locazione sia stato imposto un vincolo di destinazione a casa familiare, soccombe al cospetto della necessità di tutelare le supreme esigenze del nucleo familiare di tutelare l'habitat domestico.


Tuttavia, precisa la Cassazione, solo l'imprevisto ed urgente bisogno del comodante, giustificato dalla necessità di riservare l'immobile ad uso diretto anche a fronte del deterioramento delle sue condizioni economiche, rappresentano le uniche condizioni in grado di giustificare la richiesta di restituzione del bene da parte del comodante.


Fonte articolo: Condominioweb.com 

Donazione nulla se il bene è indiviso fra coeredi

La donazione di un bene altrui, anche se non sia espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di causa. A meno che, nell’atto di donazione, si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell’attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio.


Ne consegue che la donazione, da parte del coerede, della quota di un bene indiviso compreso in una massa ereditaria è nulla: non si può, prima della divisione, ritenere che quel singolo bene entri a far parte del patrimonio del coerede donante.

 

È il principio di diritto sancito nella sentenza delle Sezioni unite n. 5068, depositata ieri. La Seconda Sezione della Cassazione, in ragione di una non univoca giurisprudenza di legittimità, aveva rimesso alle Sezioni unite la questione se la donazione di un bene altrui dovesse ritenersi valida, anche se inefficace (Cassazione n. 1596/2001), o nulla per il principio di divieto di donazione di beni futuri (articolo 771 del Codice civile). In quest’ultimo caso, nei beni futuri andrebbero ricompresi tutti quelli non facenti parte nel patrimonio del donante, quindi anche i beni altrui; questa è la prevalente giurisprudenza di Cassazione (sentenze n. 3315/1979, 6544/1985, 11311/1996, 10356/2009, 12782/2013). 


Tutto questo ragionamento trascina con sé la questione se la norma sul divieto di donazione di beni futuri trovi applicazione, o meno, nel caso di donazione di un bene oggetto di comunione prima che sia effettuata la divisione. Secondo le Sezioni unite nella sentenza in commento, l’appartenenza al donante del bene oggetto di donazione è elemento essenziale del contratto di donazione; pertanto, quella di cosa altrui non può essere ricondotta nello schema negoziale della donazione.


In altri termini, prima ancora che per la possibile riconducibilità del bene altrui nella categoria dei beni futuri (articolo 771, comma 1, del Codice civile), la altruità del bene incide sulla possibilità stessa di comprendere il trasferimento di un bene non appartenente al donante nello schema della donazione e, quindi, sulla possibilità stessa di realizzare la causa del contratto di donazione (e, cioè, l’incremento del patrimonio del donatario con correlativo impoverimento del patrimonio del donante).


Deve quindi affermarsi, secondo la Corte nella sua composizione più autorevole, che se il bene si trova nel patrimonio del donante al momento della stipula del contratto, la donazione è valida ed efficace. Se, invece, la cosa non appartiene al donante, questi deve assumere espressamente e formalmente nell’atto l’obbligazione di procurare l’acquisto dal terzo al donatario. La donazione di bene altrui vale, pertanto, come donazione obbligatoria, purché l’altruità sia conosciuta dal donante e tale consapevolezza risulti da un’apposita, espressa affermazione nell’atto pubblico.


Se, invece, l’altruità del bene donato non risulti dal titolo e non sia nota alle parti, non potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui. Nella stessa situazione del donante che disponga di un bene non facente parte del suo patrimonio si trova il coerede che dona uno dei beni compresi nella comunione ereditaria prima della divisione, con conseguente nullità della donazione che abbia a oggetto detto bene.


Fonte articolo: Associazionenazionaleavvocatiitaliani.it

Le agevolazioni sociali per chi stipula il mutuo casa

Mutui, si cambia. Ma non per tutti. Per coloro che stanno rimborsando in questo momento un prestito ipotecario non valgono le nuove regole previste dalla “versione italiana” della direttiva direttiva europea 214/17 che in questi giorni ha fatto tanto discutere. In sintesi, le nuove regole – che si applicano solo sui nuovi mutui e solo se il mutuatario firmerà un’apposita clausola – prevedono che la banca potrà difatti mettere in vendita l’immobile del debitore insolvente senza passare dall’intervento del giudice. Lo potrà fare nel momento in cui il debitore non avrà onorato il pagamento di 18 rate.


Sui mutui in essere invece nulla cambia: in caso di mancato pagamento di 7 rate, la banca può chiedere il rimborso del debito ma deve passare dal giudice che valuterà caso per caso. 

Il debitore quindi, prima di “perdere” l’immobile, potrà far affidamento sull’eventuale posizione conciliante del giudice. C’è un’altra differenza, non da poco. Se l’immobile viene venduto (o dalla banca con la nuova norma o in asta con la vecchia) la nuova norma prevede che in caso di ricavo inferiore rispetto al debito residuo la posizione debitoria resta aperta. Mentre per i nuovi mutui verrà comunque chiusa una volta che l’immobile passa alla banca. 


LE AGEVOLAZIONI SOCIALI PREVISTE PER TUTTI I MUTUATARI

Al di là delle differenze, “vecchi mutuatari” e “nuovi mutuatari” saranno accomunati dalle agevolazioni sociali attualmente previste per i pagamenti in difficoltà. Il Ministero delle Finanze e l’Associazione bancaria italiana negli ultimi anni hanno messo in campo una serie di misure per venire incontro a chi è in difficoltà con il rimborso del mutuo prevedendo agevolazioni su tre livelli, grazie anche alla collaborazione delle principali associazioni dei consumatori.


1. Il primo è il “Fondo di solidarietà per l’acquisto della prima casa”. Possono accedervi i mutuatari con un reddito Isee non superiore a 30mila euro, un mutuo non superiore a 250mila euro e relativo all’acquisto della prima casa, in caso di: perdita del posto di lavoro (sia a tempo determinato che indeterminato), morte o sopraggiunto handicap grave o condizione di non autosufficienza. In questi casi è possibile sospendere il pagamento dell’intera rata. Il fondo verserà la quota interessi alla banca nel periodo coperto dall’agevolazione. A scadenza il debitore dovrà ritornare a rimborsare il debito residuo, spalmato però su una durata più corta.


2. Da maggio 2013 a gennaio 2016 hanno potuto sospendere per 18 mesi il pagamento delle rate 26.619 le famiglie per un controvalore di 2,5 miliardi di debito residuo. In questo fondo non è stata inclusa la categoria dei cassaintegrati. Ed è per questo motivo che da marzo 2015 l’Abi e le principali associazioni dei consumatori hanno concluso un accordo che estende la possibilità di sospendere il pagamento anche a questa categoria. In questo caso però il mutuatario potrà sospendere il pagamento solo della quota capitale della rata mentre dovrà continuare a pagare gli interessi. È attivo da un anno e finora ha all’attivo quasi mille sospensioni. "Non è possibile cumulare i due fondi, quindi sommare i 18 ai 12 mesi – spiega Angelo Peppetti, della direzione strategie e mercati finanziari dell’Abi –. In ogni caso il limite massimo delle agevolazioni complessive è 18 mesi. Se però si surroga il mutuo, gli eventuali 18 mesi già usufruiti si azzerano". 


3. Non va poi dimenticato il “Fondo di garanzia prima casa”. Opera a monte della concessione del mutuo offrendo alle banche una garanzia del 50% sul rimborso. Questo per favorire l’accesso al credito a giovani che dispongono di un reddito in grado di sostenere il pagamento delle rate, ma non della liquidità iniziale (almeno il 20% del valore dell’immobile visto che normalmente le banche non concedono mutui superiori all’80%) per chiedere un mutuo. Il fondo prevede uno stanziamento statale di circa 650 milioni di euro di cui una buona parte – assicura Consap, l’ente del Ministero delle Finanze che lo gestisce – è stata già utilizzata. È rivolto a giovani coppie con uno dei componenti di età inferiore ai 35 anni; single, separati, divorziati o vedove con almeno un figlio convivente minore, giovani di età inferiore ai 35 anni titolari di un rapporto di lavoro atipico e conduttori di alloggi di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari.


Fonti articolo: IlSole24Ore, vetrina web

Mutui casa: una norma per le banche

Ormai siamo ai dettagli. Salvo scossoni l’Italia si avvia a introdurre la “direttiva mutui” con delle importanti modifiche rispetto al testo iniziale.


Quanto alla possibilità per le banche di reintrodurre la penale su rimborso/estinzione anticipata (eliminata da una delle lenzuolate dell’allora ministro per le Attività produttive Pier Luigi Bersani) c’è stato un dietrofront: le banche non potranno reintrodurla. Anche perché questo penalizzerebbe le surroghe, che nel 2015 sono state la “killer application” del settore, aggiudicandosi un terzo del mercato totale e oltre il 65% del mercato dei mutui sul web (dati Mutuionline.it).

 

Sull’altro punto, quello relativo a cosa accade al mutuatario insolvente, il testo che il Parlamento si appresta ad approvare, modifica la direttiva. Nella direttiva UE si indica che dopo 7 rate, anche non consecutive, la banca può espropriare l’immobile. Si tratta di un cambiamento profondo rispetto a quanto accade finora (e continuerà ad accadere dato che la direttiva e la legge non sono retroattive, quindi non riguardano chi sta pagando ora un mutuo). Il filtro giudiziale scompare. La banca può espropriare l’immobile di un mutuatario insolvente anche senza il ricorso al giudice (al momento accade che la palla viene passata al giudice che decide caso per caso e che, nella maggior parte dei casi, si arriva alla vendita all’asta dell’immobile pignorato mediamente dopo sette anni dall’inadempienza che ha spinto la banca a rivolgersi al giudice per recuperare il credito).


La “versione italiana” della direttiva non è riuscita a conservare il filtro giudiziale (che scomparirà comunque) ma allunga il margine prima dell’esproprio: da 7 a 18 rate. Quindi, nella logica del compromesso tra i due interessi in causa (quello delle banche di rientrare prima rispetto agli attuali sette anni del credito e quello dei debitori insolventi di continuare ad essere tutelati evitando il più possibile l’ipotesi peggiore, ovvero quella di perdere la casa) si è arrivati a questo punto: le banche conservano la possibilità di espropriare l’immobile senza l’intervento (e le lungaggini) del giudice. Ma solo dopo 18 mesi di rate, anche non consecutive, non pagate (va anche detto che a tutela del mutuatario esistono anche dei fondi statali che consentono di eliminare la quota capitale dalla rata per 12 mesi e/o di sospendere il pagamento delle rate per 18 mesi).


A questo punto, quale sarà la reazione delle banche? Faranno degli sconti o aumenteranno invece lo spread? Come cambieranno le perizie?
"Se il testo del decreto verrà confermato, le banche e i mutuatari potranno prevedere - in caso di mancato pagamento di 18 rate del mutuo e solo per i futuri contratti di mutuo - la possibilità di estinzione del debito residuo del mutuo tramite il trasferimento della proprietà dell'immobile o utilizzando i proventi della vendita dell'immobile stesso - spiega Stefano Rossini, ad di MutuiSupermarket.it -. La valutazione dell'immobile per la vendita sarebbe effettuata da un perito scelto di comune accordo fra banca e debitore insolvente e la vendita dell'immobile – anche ad un valore inferiore al valore del debito da restituire alla banca - comporterebbe la completa estinzione del debito in essere nei confronti della banca. In caso di eccedenza del ricavato della vendita dell'immobile rispetto al debito da rimborsare alla banca, la differenza sarebbe chiaramente riconosciuta al debitore insolvente. In questo modo viene sancita la possibilità di definire una alternativa all'usuale processo legale-giudiziale di "repossession" o esproprio dell'immobile dato in garanzia all'operazione di mutuo in caso di incaglio del finanziamento".


"Il processo esecutivo storico evidenziava da sempre delle complessità e lungaggini che aumentavano considerevolmente il rischio di credito per gli istituti bancari. Il processo di recupero del credito storicamente poteva durare anche oltre i tre anni dal momento del suo avvio e in molti casi, a conti fatti, si concludeva per la banca con una perdita di una porzione molto significativa del capitale residuo dovuto da parte del debitore insolvente.
In funzione dello stato dell'immobile e dell'andamento delle aste giudiziarie questa perdita poteva addirittura arrivare a superare il 50% del debito da recuperare. Il processo di repossession – dal pignoramento dell'immobile, all'autorizzazione alla vendita forzata da parte del giudice, l'organizzazione dell'asta e incasso competenze – in alcune aree geografiche italiane poteva facilmente superare anche i quattro anni di durata. Nel momento in cui un potenziale mutuatario e la banca finanziatrice possono prevedere delle clausole contrattuali in grado di ridurre in maniera significativa tempi e rischi di perdite per la banca da mancata restituzione del finanziamento, il rischio di credito di quello specifico contratto di mutuo viene chiaramente a ridursi per l'istituto erogante".


Sempre secondo Rossini di Mutuisupermarket: "Il conto economico migliora e la marginalità del singolo finanziamento aumenta immediatamente. Se questo è vero, appare del tutto ragionevole potersi aspettare in caso di applicazione delle nuove clausole uno spread scontato che sia in grado di fattorizzare il minor costo del rischio di credito. Parimenti, dato il minor rischio credito su questi nuovi contratti, la banca potrebbe parallelamente allentare i propri criteri creditizi per certi tipi di operazione (per esempio per finanziamenti con rapporti rata/reddito che superano di poco i limiti delle policy creditizie interne) o potrebbe prendersi dei rischi in più offrendo mutui con percentuali di intervento che superino la soglia dell'80%".


Vedremo cosa accadrà effettivamente; questa analisi rafforza ulteriormente l'idea che si tratti di una legge ad hoc per le banche; perchè non intervenire in altro modo, ad esempio direttamente sull'iter processuale legale-giudiziale di "repossession" (o esproprio dell'immobile) accorciandone i tempi?


Fonte articolo: IlSole24ore.com

Mutui: come calcolare l'importo massimo da chiedere?

Oltre la metà degli italiani che acquistano una casa lo fa ricorrendo al prestito bancario, il caro vecchio mutuo. Ma non sempre si pone di fronte a questo contratto la dovuta attenzione.


Nella norma si sottoscrive un “mutuo pigro”, senza fare attenzione ai costi accessori e al tasso adeguato in relazione alla durata dell’investimento e al profilo di rischio individuale.

 

Spesso addirittura si commette l’errore di cercare casa senza conoscere qual è la propria capacità di “mutuo-acquisto”, ossia qual è l’importo massimo che una banca sarebbe disposta a prestarci. Posto che lo sia. Con il rischio di imbarcarsi in proposte di acquisto (versando anche la caparra) e veder saltare via tutto perché poi l’istituto di credito, valutando il nostro rating, cioè la nostra capacità di rimborso, decide di non concederci il finanziamento. 


Il calcolo della propria capacità “mutuo-acquisto” è senza dubbio il primo passo da compiere prima di cercare un immobile, perché permette di capire qual è la fascia limite di prezzo dell’immobile che possiamo permetterci. Come si calcola il “potere mutuo-acquisto”? Bisogna partire dal reddito netto familiare (sommando quindi eventualmente anche quello del partner). A questo dato bisogna sottrarre poi l’importo di altri finanziamenti in corso e successivamente dividere il tutto per tre. Il risultato è l’importo massimo della rata che possiamo permetterci di pagare in base alla forza del nostro reddito.
Facciamo un esempio. Una coppia di 35enni che guadagna complessivamente 4mila euro netti al mese e ha già in corso un prestito di 400 euro al mese per il pagamento delle rate dell’automobile ha quindi un netto a disposizione per il mutuo di 3.600 euro. Dividendo questo importo per 3 ne rimangono 1.200. Ciò vuol dire che le banche non concederanno mutui la cui rata superi 1.200 euro. 


Come fare a capire a questo punto quale importo massimo possiamo chiedere? Entra in ballo la durata che insieme al tasso, è l’altro elemento imprescindibile nella formula del mutuo. Più il mutuo è lungo maggiore è la quota interessi che si pagherà alla banca ma in compenso minore sarà la rata. Oggi in Italia si stipulano mutui in media di 20-25 anni per importi medi di 120mila euro. Prima di cercare l’immobile è bene effettuare qualche simulazione per capire appunto - con il livello dei tassi di mercato - l’importo massimo che possiamo chiedere in prestito considerando il nostro “potere mutuo acquisto” (1.200 nell’esempio).
Se per ipotesi abbiamo intenzione di chiedere un mutuo di 300mila euro, il calcolatore ci indica che al tasso migliore oggi disponibile sul mercato (variabile all’1,5%) con un mutuo di 20 anni pagheremmo una rata di oltre 1.400 euro. Quindi dobbiamo aumentare la durata: a 25 anni infatti la rata scenderebbe a 1.170 e quindi se gli altri requisiti sono giusti (reddito stabile e con potenziale di crescita, età anagrafica sommata alla durata del mutuo non superiore a 75 anni) aumentano le probabilità che la banca finanzi l’operazione.


Se però preferiamo il tasso fisso (che a differenza del variabile resta immutato nel tempo) la prospettiva cambia. In partenza il tasso fisso è sempre più caro del variabile (proprio perché stipulandolo il mutuatario è come se sottoscrivesse un’assicurazione che lo copre da eventuali rialzi dei tassi, assicurazione che quindi ha un costo).
Nella prima parte del 2016 il miglior tasso fisso si aggira intorno al 2,8% (130 punti base in più del variabile). La simulazione ci dice quindi che non potremmo permetterci di chiedere 300mila euro a 25 anni perché la rata risulterebbe di quasi 1.400 euro. Dovremmo quindi optare per una soluzione a 30 anni dato che in questo caso la rata scenderebbe a 1.200 euro e quindi rientrerebbe nel nostro range.


Solo dopo aver chiarito quindi qual è la rata massima sostenibile e avendo quindi scelto il tasso preferito (considerando che il fisso è più caro ma è molto vantaggioso nel caso in cui si prevede un forte rialzo dell’inflazione mentre il variabile costa meno in partenza e potrebbe aumentare in caso di rialzo dei tassi e dell’inflazione) possiamo avvicinarci a capire quale è l’importo massimo di mutuo che possiamo chiedere.


Ma c’è un altro tassello da compiere. La maggior parte delle banche concede mutui per importi non superiori all’80% del valore dell’immobile. Questo significa che non possiamo permetterci di chiedere un mutuo se non abbiamo una liquidità da parte, almeno pari al 20% del valore dell’immobile che ci piacerebbe acquistare. Al momento ci sono solo due banche in Italia che offrono mutui fino al 95% del valore dell’immobile ma in questo caso lo spread (il costo fisso da pagare alla banca che contribuisce al calcolo del tasso di interesse finale) chiesto dall’istituto è più caro. Quindi anche in questo caso bisogna fare le simulazioni perché chiedendo un mutuo al 95% la rata rischierebbe di sforare l’importo massimo sostenibile (1.200 euro nell’esempio), pur spingendo al massimo (cioè 30 anni, di solito le banche non vanno oltre) la scadenza.


Se abbiamo fatto questi calcoli con accortezza e conosciamo su che cifre possiamo muoverci, allora possiamo cercare l’immobile. È inoltre molto importante nel momento in cui dovessimo fare una proposta d’acquisto versando una caparra per bloccare l’appartamento da altre offerte e aspettando che il venditore accetti o meno la nostra proposta di prezzo, inserire una preziosa clausola nella proposta d’acquisto: “salvo buon fine mutuo”. In questo modo potremo recuperare la caparra nel caso la banca o le banche presso cui nel frattempo ci siamo rivolti per chiedere un preventivo e avviare un’istruttoria sulla nostra capacità reddituale e di rimborso non dovessero concederci il mutuo. Perché l’ultima parola sta a loro.


Fonte articolo: IlSole24Ore, Guida Casa.

Incentivi immobili classe A-B da acquistare o affittare

Chi decide di comprare una casa energeticamente efficiente nel 2016 può godere di alcune agevolazioni pensate per la ripresa del mercato immobiliare.


Nel 2016 infatti si può usufruire delle misure previste dalle Legge di Stabilità 2016, che ha introdotto un sconto Irpef per chi compra una casa in classe A o B dal costruttore, e di quelle previste dal Decreto Sblocca Italia,che prevede uno sconto Irpef per chi acquista o realizza un alloggio energeticamente efficiente e lo affitta a canone concordato.

Sconto Irpef per chi compra una casa in classe A o B dal costruttore.

La Legge di Stabilità 2016 ha introdotto una detrazione Irpef pari al 50% dell’Iva pagata per chi acquista nel 2016, direttamente dal costruttore, una casa, nuova o ristrutturata, in classe energetica A o B.  
 
Per ottenere il bonus è quindi necessario rispettare alcuni punti:
- acquisto effettuato entro il 31 dicembre 2016;
- acquisito di unità immobiliari ad uso residenziale in classe energetica A o B;
- cessione effettuata dall’impresa costruttrice.


La legge non pone limiti particolari, di conseguenza la misura può essere sfruttata sia per la prima che per la seconda casa (anche se l’aliquota Iva applicata in questo caso varierà dal 4% al 10%). Acquistando, per esempio, un’abitazione da destinare a prima casa che costa 100 mila euro, l’Iva al 4% ammonterà a 4 mila euro. Lo sconto Irpef per l’acquirente sarà pari a 2 mila euro, cioè la metà dell’Iva versata. Il rimborso avverrà in dieci anni con rate di pari importo.
Se, invece, l’abitazione che costa 100 mila euro non deve essere utilizzata come prima casa, l’Iva ammonterà al 10%, quindi si dovranno versare 10 mila euro. In questo caso, l’acquirente potrà usufruire di uno sconto Irpef pari a 5 mila euro.


Bonus 20% per chi compra casa per affittarla.

Dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2017 si può inoltre usufruire delle misure previste dal DM 8 settembre 2015, che attua le misure previste dal Decreto Sblocca Italia, per chi acquista o realizza un alloggio energeticamente efficiente da affittare a canone concordato.
È prevista una deduzione Irpef pari al 20% del prezzo di acquisto di un alloggio, in classe energetica A o B, da destinare alla locazione a canone concordato per un periodo non inferiore a otto anni.
La deduzione non può superare i 60 mila euro. Per poter accedere all’agevolazione, l’affitto a canone concordato deve avvenire entro sei mesi dall'acquisto.


Per beneficiare dell'agevolazione
 è necessario acquistare un immobile da un’impresa di costruzione o di ristrutturazione o, ancora, da una cooperativa edilizia. Inoltre beneficiano del bonus gli acquisti fino a 300 mila euro effettuati dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2017. In questo caso però l’immobile deve avere una destinazione residenziale non di lusso: non può quindi essere accatastato nelle categorie A/1, A/8 e A/9. 


Il locatore e il locatario non possono essere parenti entro il primo grado. Questo significa che non ha diritto alla deduzione del 20% un padre che acquista una casa e la affitta a canone concordato al figlio.
Usufruisce dell’agevolazione anche chi, invece di acquistare l’immobile, lo realizza su un’area edificabile di sua proprietà. In questo caso i sei mesi entro cui procedere all'affitto a canone concordato decorrono dal rilascio dell’agibilità o dal momento in cui si è formato il silenzio assenso. Restano invariate tutte le altre condizioni, cioè zona di costruzione, destinazione dell’alloggio e caratteristiche costruttive.


Fonti articolo: Edilportale.com

Prima casa: prevale la classificazione catastale

I criteri per i benefici fiscali sulla prima casa in vigore dal 2014 valgono anche per il passato. La classificazione catastale prevale sulle vecchie regole del 1969. La casa che rientra nella categoria A/2 non è di lusso e, pertanto, può fruire dei benefici “prima casa”, a prescindere dal fatto che l’immobile è superiore ai 240 metri quadrati, limite oltre il quale, in base ai criteri del decreto del 1969, era esclusa l’agevolazione.


È questo, in sintesi, quanto deciso dalla Commissione tributaria regionale di Roma, con la sentenza n. 4449/1/15. Ecco i fatti.

 

L’ufficio dell’Agenzia delle Entrate di Roma, con un atto di rettifica e liquidazione, revoca le agevolazioni prima casa a un contribuente che aveva acquistato un immobile nel 2008. Per l’ufficio, il contribuente non aveva diritto alle agevolazioni perché l’immobile aveva le caratteristiche di “casa di lusso”. Anche l’Agenzia del Territorio aveva supportato la decisione dell’ufficio in quanto aveva stimato che l’immobile aveva una superficie complessiva di 308,65 metri quadrati, cioè superiore al limite di 240 metri quadri oltre il quale era esclusa l’agevolazione prima casa.

Contro l’atto di revoca delle agevolazioni il contribuente presenta ricorso, chiedendo l’annullamento dell’atto. Il ricorso viene respinto dalla Ctp di Roma. Contro la sentenza, il contribuente propone appello per chiederne la riforma. Nell’appello, il contribuente rileva, in particolare, la mancata applicazione del principio dell’abolitio criminis in relazione all’articolo 10 del decreto legislativo n. 23 del 14 marzo 2011.


Per i giudici tributari di secondo grado, l’appello del contribuente deve essere accolto per la ragione che si deve tenere conto del predetto articolo 10 del decreto legislativo 23/2011, a seguito del quale la materia è stata totalmente innovata avendo, tale provvedimento "modificato i criteri di individuazione delle classi degli immobili ai fini dell’imposta di trascrizione riportando tutto alla categoria catastale".

Ciò è stato confermato dalla stessa Agenzia delle Entrate, che, nella circolare 2/E del 2014, al paragrafo 1.3, afferma che "a decorrere dal 1° gennaio 2014, … l’applicabilità delle agevolazioni prima casa risulta vincolata, ai fini dell’imposta di registro, alla categoria catastale in cui è classificato o classificabile l’immobile e non più alle 13 caratteristiche individuate dal decreto del Ministro dei Lavori pubblici del 2 agosto 1969, così come previsto dall’articolo 1, quinto periodo, della Tariffa, parte prima, allegata al Tur, nella formulazione applicabile fino al 31 dicembre 2013".


Nel caso in esame, anche se l’acquisto dell’immobile è del 2008, deve essere rispettato il principio di abolitio criminis secondo il quale "salvo diversa previsione di legge, nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile".


In conclusione, le regole per le agevolazioni fiscali sulla casa in vigore dal 2014 valgono anche per il passato, e la classificazione catastale prevale sui vecchi criteri del 1969. Considerato che la casa in oggetto, di categoria A/2, è “non di lusso”, il contribuente ha diritto alle agevolazioni e l’atto dell’ufficio deve essere annullato.


Fonte articolo: IlSole24ore.com

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