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Cedolare secca affitti brevi: l'aliquota passa dal 21 al 10%

 

Sono circa 120mila i contratti d’affitto transitori che adesso hanno la certezza di poter applicare la cedolare secca al 10 per cento.


La conferma delle Entrate – arrivata a Telefisco 2017 – riguarda le locazioni che durano da 1 a 18 mesi stipulate nei capoluoghi di provincia e nelle aree metropolitane. 

 

In pratica, in tutti i centri in cui il proprietario non può applicare liberamente il canone di mercato, ma deve rispettare i prezzi minimi e massimi fissati dagli accordi locali.


I risparmi possibili 

Analizziamo ora le cifre in gioco. Secondo l’ultimo Rapporto dell’Osservatorio del mercato immobiliare (Omi) delle Entrate, il canone medio per i contratti brevi nei Comuni ad alta tensione abitativa è 507 euro al mese. Ad esempio, su una locazione transitoria di nove mesi, la possibilità di applicare l’aliquota al 10% – anziché quella al 21% – riduce il carico fiscale sull’affitto da 958 a 456 euro, con un risparmio di 502 euro.


Siccome il chiarimento delle Entrate ha natura interpretativa, si applica anche per il passato. Perciò, chi ha pagato con il 21%, potrà presentare una dichiarazione integrativa a favore per recuperare la differenza. Peraltro, alcuni proprietari potrebbero aver sempre pagato con il 10%, visto che Confedilizia – che ha salutato con favore la conferma – ha portato avanti questa interpretazione fin dall’introduzione della cedolare, nel 2011. 
D’altro canto, il principale sindacato degli inquilini, il Sunia, critica l’Agenzia, paventando l’aumento eccessivo di contratti di questo tipo. 


Interessati i grandi Comuni 

Vediamo ora quante sono le abitazioni interessate dalla nuova aliquota al 10 per cento. Anche se l’analisi dell’Omi si concentra sui contratti più lunghi, sappiamo che nel 2015 sono stati registrati 101.058 nuovi contratti di locazione abitativa di durata inferiore a un anno per immobili interi. Ma si tratta solo di un dato di base. Bisogna aggiungere gli affitti di singole stanze (259mila, di tutte le durate), i contratti oltre un anno ma inferiori a 18 mesi (243mila quelli da uno a tre anni) e gli immobili che non è stato possibile analizzare nel rapporto, per lo più per errori di compilazione del modello di registrazione (il 22% del totale).


Si arriva così a una stima di 207mila contratti con durata da 1 a 18 mesi stipulati in tutta Italia in un anno, e giustificati da esigenze temporanee del proprietario o dell’inquilino. Ma non è finita, perché – tra questi – quelli che hanno la cedolare al 10% sono solo i contratti per i quali il proprietario non è libero di applicare il canone di mercato. 
Di fatto, parliamo delle locazioni nei Comuni compresi nelle aree metropolitane di Roma, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Torino, Bari, Palermo e Catania, oltre che nei Comuni confinanti con tali aree e negli altri Comuni capoluogo di provincia. Da qui, conteggiando sia il fattore popolazione che la maggiore vitalità del mercato nel grandi centri, si arriva alla stima di circa 120mila contratti.


Il livello del canone 

Lo scarto tra il canone di mercato e quello “imposto” ai contratti transitori dipende dai singoli accordi territoriali. 
I dati medi rilevati dal Rapporto Omi misurano uno scarto contenuto rispetto agli affitti liberi, anche nei tre centri maggiori di Roma, Milano e Napoli, ma va detto che nella categoria delle locazioni “temporanee” mappata dall’Agenzia sono compresi i contratti da uno a tre anni, quindi i due insiemi sono solo parzialmente sovrapponibili. In questo senso è forse più affidabile il parametro offerto dai contratti a canone concordato, ai quali spesso i transitori sono agganciati, e qui il canone medio è di 485 euro contro i 516 del “libero”.


Lo sconto Imu-Tasi del 25% 

Alla cedolare secca agevolata si aggiunge anche la riduzione, sempre per i contratti a canone concordato, del 25% di Imu e Tasi, prevista dalla legge di Stabilità del 2016 a partire dal 1° gennaio dell’anno scorso (si veda anche l’articolo in basso). Misura che si applica anche ai transitori, perché la norma istitutiva richiama tutti i contratti concordati stipulati in base alla legge 431/1998. 


Fonte articolo: IlSole24Ore, vetrina web

Terremoto e sicurezza: serve piano antisismico nazionale

La frequenza del terremoto che si ripete nel Centro Italia, facendosi sentire sempre di più anche nella Capitale, impone alle istituzioni un ripensamento generale del rapporto con il territorio”, dichiara il Presidente della Confederazione sindacale delle professioni tecniche, Calogero Lo Castro.


“La priorità deve essere data alle infrastrutture delle zone maggiormente colpite, ma da subito bisogna mettere mano ad un piano di intervento nazionale per la manutenzione edile, pubblica e privata. Vanno ricostruiti interi centri, ma più in generale – sottolinea il presidente di Confedertecnica - va messa in sicurezza una parte enorme del Paese, Roma inclusa”.

“L’Italia deve ripensare alla propria edilizia in chiave antisismica, perché è evidente a tutti che lo spostamento delle faglie non è un fatto isolato, ma un fenomeno purtroppo destinato a durare a lungo”. “Confedertecnica c’è ed è pronta a fare la sua parte”, conclude Lo Castro.


Per la geologa abruzzese, Tania Campea, Guida Ambientale Escursionistica dell’AIGAE "In Italia ben 24 milioni di persone vivono in aree potenzialmente ad elevato rischio sismico e le scuole e gli ospedali sono “fortemente esposti”, anche perché il patrimonio edilizio scolastico è decisamente vetusto, con un 60% costruito prima delle norme sismiche, che porta a quasi 29.000 le scuole a rischio.
Sarebbe necessario rimettere al centro del discorso pubblico l’attivazione del “Fascicolo del Fabbricato”, spiega la geologa, che aggiunge: “I geologi devono essere coinvolti anche nelle scuole per la divulgazione della prevenzione. L’unica possibilità che abbiamo è la prevenzione”.


Ricordiamo che da quest'anno è possibile usufruire del Sisma Bonus fino al 2021 per le zone a rischio (1, 2 e 3).


Fonti articolo: Casaeclima.comGreenews.info

Cambio destinazione d'uso dell'immobile, come funziona?

Trasformare un loft industriale in un’abitazione privata significa non solo procedere ad un’importante ristrutturazione ma in primo luogo dover effettuare un cambio di destinazione d’uso.


Come si procede? Quali sono i costi da tenere in considerazione prima di iniziare cambio di destinazione d’uso?

Quando si parla di destinazione d’uso si definisce in edilizia l’insieme delle modalità e  finalità di utilizzo di un certo edificio. La prima verifica da compiere preventivamente è quella di recuperare il cosiddetto Piano Regolatore, un insieme di norme approvate dal proprio Comune di residenza che possono vietare o meno il cambio di destinazione d’uso in particolari zone. Se il Piano Regolatore non pone particolari limiti, è il momento di capire quali autorizzazioni vanno richieste al Comune.


Occorre in tal caso distinguere a seconda che il cambio di destinazione d’uso comporti o meno l’esecuzione di opere edilizie. Se non vi sono allora per ottenere il cambio basterà presentare una DIA, la Denuncia di Inizio attività oppure la SCIA, la Segnalazione certificata di Inizio attività, a seconda delle decisioni del Comune. Se il cambio di destinazione d’uso prevede invece delle modifiche strutturali o distributive, allora andrà chiesto un Permesso di Costruire vista l’importanza dell’intervento da realizzare.


Se l’immobile oggetto del cambio di destinazione d’uso si trova in un condominio occorre verificare che nel regolamento condominiale non vi siano restrizioni in tal senso. Se così fosse occorre prima di procedere al cambio chiedere l’autorizzazione alla stessa assemblea. Dopo aver ottenuto le autorizzazioni necessarie si potrà procedere all’intervento che comporta inevitabilmente anche il cambio di categoria catastale dell’immobile.
Si definisce cambio d’uso urbanisticamente rilevante quello che comporta il passaggio ad una categoria diversa, anche senza opere edilizie. Cambiando la categoria cambia anche la rendita su cui andranno calcolate le tasse, come Imu e Tasi.


Il Decreto Sblocca Italia ha modificato l’articolo  23-ter del Testo Unico dell’Edilizia (d.P.R. 380/2001) secondo cui costituisce cambio rilevante della destinazione d’uso “ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale” inserita in un catalogo ben definito. Sono quattro le categorie funzionali oggi possibili: residenziale e turistico-ricettiva, produttiva e direzionale, commerciale e rurale. In base al Testo Unico dell’Edilizia è sempre possibile il cambio della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale, salvo diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali.


Ma quanto costa il cambio di destinazione d’uso? Le spese da tenere in conto sono quelle necessarie per i lavori materiali all’interno dell’immobile, a cui si aggiungono le parcelle dei professionisti coinvolti – diverse a seconda se il cambio di destinazione d’uso prevede o meno opere edilizie – e gli oneri di urbanizzazione.


Fonte articolo: Cosedicasa.com

Il distacco dall’impianto termico esonera dai contabilizzatori?


Il decreto milleproroghe (244/2016) ha prorogato al 30 giugno 2017 l’installazione nel condominio di sistemi di contabilizzazione del calore in ossequio alla normativa europea, la direttiva 2012/27/Ue, alla norma tecnica Uni 10200 ed alle leggi regionali.


Tuttavia il quesito che spesso ricorre nelle assemblee è se un condòmino possa non aderire a tale obbligo mediante il distacco dall’impianto termico comune, a prescindere dalle sanzioni amministrative previste in caso di mancata adozione dei sistemi. 

In tale materia è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza 23756/2016,. La Cassazione ha affermato che per costante sua giurisprudenza il condòmino è sempre obbligato a pagare le spese di conservazione dell’impianto di riscaldamento anche quando sia stato autorizzato a rinunziare all’uso del riscaldamento centralizzato e a distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall’impianto comune.


Allo stesso modo il condòmino è tenuto a concorrere alla spesa anche quando abbia offerto la prova che dal distacco non derivino né un aggravio di gestione o un suo squilibrio termico: in tali casi è esonerato soltanto dall’obbligo delle spese occorrenti per il suo uso , se il contrario non risulta dal regolamento condominiale.


È quindi lecita la delibera condominiale che ponga a carico anche dei condòmini che sia siano distaccati dall’impianto di riscaldamento le spese occorrenti per la sostituzione della caldaia in quanto "l’impianto centralizzato costituisce un accessorio di proprietà comune, al quale i predetti potranno comunque allacciare la propria unità immobiliare".


La Corte afferma che al fine di consentire il distacco "occorre verificare se, con gli stessi periodi di accensione tutti gli altri restanti appartamenti fruissero della stessa quantità di calore goduta prima del distacco, e dei medesimi tempi di erogazione del servizio di acqua calda". Quindi la Corte sostiene che il diritto all’esonero dalle spese di gestione per il condòmino che si è munito di impianto termico autonomo non può basarsi unicamente su un’attestazione rilasciata da un tecnico specializzato, priva di adeguata prova dell’inesistenza dello squilibrio termico con i restanti appartamenti.


Pertanto i condòmini “dissenzienti ed autonomi” devono provare l’assenza di squilibrio termico conseguente al distacco dei loro impianti, e comunque non sono esonerati dal concorso alle spese per consentire l’adeguamento dell’impianto centrale condominiale, entro il 30 giugno 2017, al sistema di contabilizzazione del calore secondo la direttiva 2012/27/Ue e norma tecnica Uni 10200.


Fonte articolo: IlSole24Ore, vetrina web

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