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Mutui: il Decreto che consegna la casa alle banche

Scoppia il caso dei mutui sulle case. Stefano Cherti, consulente dell'Unione Nazionale Consumatori, lancia l'allarme: "La banca potrebbe vendere la casa anche se si sono pagate sette rate".


L'Abi tenta di rassicurare gli italiani: nessun rischio di pignoramento. Il caso diventa anche politico. Protesta del M5S in Aula: "Giù le mani" e lancia l'hashtag su twitter #LaCasaNonSiTocca.

L'ALLARME DELL'UNIONE NAZIONALE CONSUMATORI

"Il regalo che Governo e Parlamento vogliono fare alle banche è inaccettabile. Eliminare il filtro del giudice significa consegnare il consumatore nella morsa delle banche. E' incredibile che il legislatore si sia già dimenticato di quanto accaduto negli Stati Uniti, dove furono proprio i mutui subprime ad innescare la crisi dalla quale non siamo ancora usciti. Le banche in America possono vendere la casa del debitore senza alcun filtro del giudice, ma questo ha solo aggravato la crisi di liquidità delle banche, non l'ha risolta" ha dichiarato il Prof. Stefano Cherti, consulente dell'Unione Nazionale Consumatori.


"La situazione, comunque, è purtroppo più grave rispetto a quanto si creda. Stando al testo attualmente scritto, la banca, in teoria, può decidere di vendere la casa anche se si sono pagate le famose 7 rate di cui tutti parlano. Il terzo comma dell’art. 120-quinquiesdecies, in base al quale le parti possono convenire il trasferimento del bene alla banca in caso di inadempimento, parla genericamente di "inadempimento del consumatore", senza specificarne la gravità, ossia se si fa riferimento all'art. 1455 del codice civile, un inadempimento che non ha scarsa importanza per la banca o all'art. 40 del Testo unico bancario, cioè dopo il famoso ritardato pagamento di almeno sette rate, anche non consecutive. Quindi in teoria la banca potrebbe vendere la casa anche se si sono pagate 7 rate" ha proseguito Cherti.


"Infine, nell'art. 120-quinquies comma 2, è scritto che dal costo totale del credito (TAEG), sono «esclusi i costi connessi con la trascrizione dell’atto di compravendita del bene immobile e le eventuali penali pagabili dal consumatore per l’inadempimento degli obblighi stabiliti nel contratto di credito».  In pratica, dopo l'eliminazione delle penali ottenuta con l’entrata in vigore, nel 2007, del c.d. Decreto Bersani, si reintroduce nella norma un generico riferimento alle eventuali penali pagabili dal consumatore. Fare passi indietro nell'unico campo nel quale, grazie alle lenzuolate Bersani, c'è stata un'effettiva liberalizzazione, sarebbe un autogol clamoroso" ha concluso Cherti.


LE TIMIDE RASSICURAZIONI DELL'ABI

L'Abi entra nel dibattito sulla direttiva europea sui mutui che nella sua versione attuale permetterebbe alle banche di esproriare le case senza dover passare dalla sentenza di un tribunale dopo il ritardo nel pagamento di 7 rate del prestito ipotecario. "Non riguarda fatti del passato ma la possibilità e l'eventualità per il futuro, lasciata alla libera contrattazione tra famiglie e istituti bancari" dice il presidente dell'Associazione, Antonio Patuelli che poi aggiunge: "Esiste anche un fondo salva-mutui per le moratorie presso il Tesoro. Sono logiche europee, ce ne sono anche altre, comunque noi non ce ne siamo interessati". Il banchiere ha poi chiarito: "Non si tratta di recupero crediti perché riguarderebbe il passato, mentre qui si parla di futuro".


ECCO DOVE NASCE LO SCONTRO

Il nocciolo della questione sta nel nuovo articolo 120-quinquesdecies del Testo Unico Bancario, che disciplina i casi di "inadempimento del consumatore" evitando le procedure di esecuzione. La Legge prevede che se il debitore salta il pagamento di 7 rate del mutuo, il finanziatore può adottare le procedure per "gestire i rapporti con i consumatori in difficoltà nei pagamenti". Alla banca e al sottoscrittore del mutuo il decreto di recepimento della direttiva Ue lascia la facoltà di inserire nel contratto la previsione che la casa ipotecata venga restituita alla banca, perché sia venduta, in caso si verifichino sette mancati pagamenti. In questo modo, la banca può rientrare del finanziamento, fatto salvo l'obbligo di restituire al consumatore l'incasso extra ricavato.


Come notano i tecnici della Camera, la ratio dovrebbe esser quella di snellire le procedure in caso di inadempimento del pagatore. Si sa che in Italia le escussioni immobiliari sono molto complesse e i tempi per realizzare un incasso da una casa pignorata sono di circa 7 anni. E' uno dei fulcri del problema della crescita delle sofferenze delle banche. Con un simile procedimento, gli istituti potrebbero godere di una "garanzia" molto più forte per le loro erogazioni. Chi difende la norma, sottolinea come la vendita in tempi stretti sia un vantaggio anche per il debitore, che non vedrebbe il bene depauperarsi come avviene nel caso delle vendite giudiziarie e quindi avrebbe maggiori chances di incassare qualcosa. In un'ottica di sistema, quindi, i tecnici si aspettano un miglioramento delle disponibilità di credito da parte delle banche, con condizioni migliori per chi deve sottoscrivere un prestito.


Il busillis è nella definizione di quel patto tra banca e consumatori, che dovrebbe appunto oliare tutte queste procedure. Si scontrano la concezione di "patto marciano", che esiste nella prassi pur non essendo codificato dalla legge, e quello "concessorio", espressamente vietato dall'articolo 2744 del codice civile. La differenza tra i due sta nelle garanzie che si danno al debitore. Nella forma concessoria, il patto dispone che in caso di impossibilità a ripagare il debito, il bene a garanzia passi nelle disponibilità del creditore, che lo può vendere e tenere per sé tutto l'incasso. Nel caso del patto marciano, invece, l'eccedenza di realizzo torna al debitore. Per questo aspetto, la nuova norma appare in linea con il patto marciano, garantendo la plusvalenza a chi ha sottoscritto il mutuo. Un'altra garanzia riguarda il fatto che il valore del bene, sulla cui base procedere alla vendita, deve esser stimato da un perito terzo, scelto di comune accordo dalle parti.


MUTUI. GIBIINO (OPMI): SUBITO CORRETTIVO PER METTERE AL SICURO CASE ITALIANI

“Urge un correttivo immediato nel recepimento della direttiva europea sui mutui, al fine di scongiurare veri e propri espropri da parte delle banche. Ho convocato il direttivo dell’Osservatorio parlamentare sul mercato immobiliare, istituzione che riunisce parlamentari di ogni parte politica e le principali federazioni del settore, per analizzare una situazione estremamente delicata e per chiedere un incontro con Palazzo Chigi”, lo dichiara il senatore Vincenzo Gibiino, Presidente dell’Osservatorio parlamentare sul mercato immobiliare.


“L’80% degli italiani possiede una casa, il 40% ne possiede due, il 20% addirittura tre. Ci troviamo di fronte ad uno scenario completamente differente da quello degli altri Paesi Europei – prosegue Gibiino –. Un recepimento automatico rischierebbe quindi di mettere in crisi un mercato che non senza fatica si sta rivitalizzando, e porrebbe altresì in cattiva luce gli istituti di credito agli occhi dei cittadini. Le banche siano dunque partner affidabili e non scorretti creditori”.


LA PROTESTA IN AULA

I deputati del Movimento 5 stelle hanno bloccato la seduta della Commissione Finanze della Camera con due picchetti nel corridoio al secondo piano di Montecitorio per impedire la discussione dello schema di decreto legislativo che recepisce la direttiva europea 2014/17, introducendo la possibilità di esproprio delle case dei mutuatari insolventi.
Oggetto della contestazione, spiega il deputato stellato Daniele Pesco, è "la previsione contenuta nel provvedimento secondo la quale le banche possono vendere, senza passare dal giudice, le case se chi ha contratto un mutuo non paga sette rate. In pratica viene reso possibile il 'patto commissorio' proibito dal codice civile".


Fonte articolo: Affaritaliani.it

Le insidie che rimandano il distacco dal centralizzato


Il "distacco" piace ancora molto. Nonostante l’approssimarsi della scadenza dell’obbligo di installare i contabilizzatori di calore, che renderanno più individuale il consumo, la Cassazione e la legge (da ultimo la riforma del 2012) si sono assiduamente dedicate al problema.


Anzitutto va richiamata l’attenzione sull’articolo 4 del Dpr 59/09 che afferma "in tutti gli edifici esistenti con più di quattro unità abitative e in ogni caso per potenze nominali del generatore di calore dell’impianto centralizzato maggiore o uguale a 100 kW è preferibile il mantenimento di impianti centralizzati laddove esistenti".

 

La norma precisa anche che le cause tecniche o di forza maggiore per ricorrere a eventuali interventi finalizzati alla trasformazione dei centralizzati in impianti con generatore di calore separata per singola unità abitativa devono essere dichiarate nella relazione di cui al successivo comma 25 dello stesso Dpr 59/09, cioè nella relazione attestante la rispondenza delle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici e relativi impianti termici che, come prescritto dall’articolo 28, comma 1, della legge 10/91, il proprietario dell’edificio deve depositare presso le amministrazioni competenti insieme alla denuncia dell’inizio dei lavori relativi alle opere di cui agli articoli 25 e 26 della stessa legge n.10/91.


Nonostante tale esplicita dichiarazione legislativa di preferenza per il centralizzato, una successiva pronuncia della Cassazione (5331/2012) riaffermava il principio secondo cui "il condomino può legittimamente rinunciare all’uso del riscaldamento centralizzato e distaccare le proprie diramazioni della sua unità abitativa senza necessità di autorizzazione e approvazione degli altri condomini. Fermo restando il suo obbligo di pagamento delle spese per la conservazione dell’impianto, è tenuto a partecipare a quelle di gestione se e nei limiti in cui il suo distacco non si risolve in una diminuzione degli oneri del servizio di cui continuano a godere gli altri condomini".
Veniva così affermato con questa pronuncia anche un altro principio: quello della possibilità del rinunciante a distaccarsi, anche in presenza di aggravi di spesa per gli altri utenti, previo accollo di tale maggior onere derivante dal distacco. 


Tali principi, ispirati come già detto a un evidente favore per il “distaccante”, sembrano poi, sostanzialmente anche se non completamente, recepiti dalla legge 220/2012 che, modificando l’articolo 1118 del Codice civile, quarto comma, statuisce che : "il condomino può rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunciante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell’impianto e per la sua conservazione e messa a norma".


Molti punti della norma sono tuttavia parsi subito poco chiari dando luogo a sostanziali contrasti interpretativi.
In primo luogo ci si è chiesti e ci si chiede se l’aggettivo "notevoli" si riferisca solo agli squilibri o anche agli aggravi di spesa: se l’aggettivo si riferisce solo agli squilibri, interpretazione che sarebbe preferibile alla luce dell’uso del disgiuntivo “o” anzichè della congiunzione “e”, si arriverebbe a un’interpretazione che rende di fatto il distacco irrealizzabile o difficilmente realizzabile, poiché un aggravio qualsivoglia deriva sempre e comunque dal distacco del singolo.


Resta anche un altro dubbio sostanziale: se possa trovare applicazione anche oggi l’orientamento della Cassazione, formatosi quando non esisteva alcuna norma sul distacco, sul fatto che, in presenza di aggravi di spesa per gli altri condòmini, il distacco stesso possa ritenersi legittimo qualora l’aspirante ”distaccante” si accolli l’aggravio, di qualunque entità esso sia, notevole o minimo. 


Va infine aggiunto che nel frattempo molte legislazioni regionali (per esempio la legge della Regione Piemonte 13/2007), accogliendo il suggerimento del legislatore del 2009 e mostrando di aderire in modo netto e incondizionato all’orientamento contrario all’installazione di impianti autonomi individuali (in quanto contrari alla finalità del risparmio energetico e del contenimento dei consumi), hanno emanato normative che vietano tale installazione quando le unità immobiliari nel condominio siano superiori a un certo numero, di volta in volta diverso, a seconda della legislazione regionale. 


Fonte articolo: IlSole24Ore.vetrina web.

Prima casa: 19% detraibile per spese di mediazione

Prosegue il "graduale miglioramento del mercato immobiliare": lo rileva Bankitalia nel sondaggio congiunturale sulle compravendite di abitazioni riferito all’ultimo trimestre 2015. E il merito va anche alle agevolazioni fiscali per la prima casa: fra gli incentivi tuttora validi c’è la detrazione Irpef della provvigione pagata all’agenzia immobiliare per l’acquisto dell’immobile. 


È intanto in vigore da qualche giorno la netta riduzione dell’imposta di registro per chi compra un cespite nelle aste giudiziarie e lo rivende entro due anni.

 
Domanda in aumento

Lo studio degli economisti di Bankitalia si rifà proprio all’esperienza degli operatori del settore. Aumenta la quantità di agenti che nel periodo interessato hanno venduto almeno un’abitazione: 77,8% contro il 71,6% nel terzo trimestre dell’anno scorso. E i nuovi incarichi di mediazione arrivati nel frattempo destano ottimismo anche a medio termine, dunque nei prossimi due anni. Ma attenzione, si ferma il calo dei prezzi: per la prima volta dalla primavera del 2011 risulta minoritaria la quota di agenti che segnala una contrazione dei corrispettivi per i trasferimenti; si tratta del pari al 46,4 per cento contro il 67,6 di un anno fa.


Così si scarica

Un’occasione di risparmio per chi compra l’abitazione arriva proprio dalle spese di mediazione ed è la stessa Agenzia delle Entrate a spiegare il funzionamento degli incentivi nella guida su casa e fisco: sono detraibili nella misura del 19% su un importo massimo di 1.000 euro i compensi pagati a chi si occupa dell’intermediazione immobiliare nell’acquisto dell’immobile da adibire ad abitazione principale: il tetto del bonus, insomma, è 190 euro. E ciò al di là di come sono denominati i compensi da scaricare dalle tasse.
Quando a comprare l’unità immobiliare sono più persone, la detrazione deve essere ripartita tra i comproprietari in base alla relativa quota, sempre nel limite di mille euro. Al contribuente l’agevolazione spetta a condizione che l’acquisto dell’immobile sia effettivamente concluso.
In caso di stipula del contratto preliminare, per poter usufruire del beneficio fiscale è necessario aver regolarmente registrato il compromesso.


Fattura e dichiarazione

Lo sgravio Irpef può essere utilizzato nella dichiarazione dei redditi, 730 o Unico, l’anno successivo all’emissione del documento contabile. Se la fattura risulta intestata a uno solo degli acquirenti ma l’immobile è comunque in comproprietà, bisogna integrare il documento annotando i dati di chi non figurava per consentirgli di fruire della detrazione pro quota. Al contrario, se il proprietario dell’abitazione è uno ma la fattura dell’agenzia risulta intestata anche a un’altra persona, bisogna annotare sul documento che a sostenere la spesa è stato solo il primo, che altrimenti non potrà detrarre l’intera somma. E laddove la fattura viene intestata a una persona che non è il proprietario, quest’ultimo non otterrà il beneficio fiscale.
Lo sgravio compete anche per l’acquisto di diritti reali diversi dalla piena proprietà, ad esempio l’usufrutto, sempre a condizione che l’immobile sia adibito ad abitazione principale. No al bonus per la provvigione versata per l’acquisto di seconde case e ai mediatori creditizi per la stipula del mutuo fra l’acquirente e la banca.


Misura fissa

Veniamo all’incentivo per le vendite giudiziarie, introdotto dal decreto legge 18/2016, che riforma le banche di credito cooperativo. Il pagamento dell’imposta di registro sull’immobile è previsto nella misura fissa di 200 euro invece che nella percentuale del 9% del valore di assegnazione del bene. Ma unicamente a condizione che l’acquirente dichiari in sede di assegnazione dell’immobile di voler ritrasferire il cespite nel biennio successivo. E se poi non lo fa? Sarà costretto a pagare le imposte di registro, ipotecaria e catastale nella misura ordinaria, la sanzione amministrativa del 30% e gli interessi di mora. L’agevolazione è prevista soltanto fino al 31 dicembre prossimo.


Fonti articolo: IlGazzettino.it

Mutui: come calcolare l'importo massimo da chiedere?

Oltre la metà degli italiani che acquistano una casa lo fa ricorrendo al prestito bancario, il caro vecchio mutuo. Ma non sempre si pone di fronte a questo contratto la dovuta attenzione.


Nella norma si sottoscrive un “mutuo pigro”, senza fare attenzione ai costi accessori e al tasso adeguato in relazione alla durata dell’investimento e al profilo di rischio individuale.

 

Spesso addirittura si commette l’errore di cercare casa senza conoscere qual è la propria capacità di “mutuo-acquisto”, ossia qual è l’importo massimo che una banca sarebbe disposta a prestarci. Posto che lo sia. Con il rischio di imbarcarsi in proposte di acquisto (versando anche la caparra) e veder saltare via tutto perché poi l’istituto di credito, valutando il nostro rating, cioè la nostra capacità di rimborso, decide di non concederci il finanziamento. 


Il calcolo della propria capacità “mutuo-acquisto” è senza dubbio il primo passo da compiere prima di cercare un immobile, perché permette di capire qual è la fascia limite di prezzo dell’immobile che possiamo permetterci. Come si calcola il “potere mutuo-acquisto”? Bisogna partire dal reddito netto familiare (sommando quindi eventualmente anche quello del partner). A questo dato bisogna sottrarre poi l’importo di altri finanziamenti in corso e successivamente dividere il tutto per tre. Il risultato è l’importo massimo della rata che possiamo permetterci di pagare in base alla forza del nostro reddito.
Facciamo un esempio. Una coppia di 35enni che guadagna complessivamente 4mila euro netti al mese e ha già in corso un prestito di 400 euro al mese per il pagamento delle rate dell’automobile ha quindi un netto a disposizione per il mutuo di 3.600 euro. Dividendo questo importo per 3 ne rimangono 1.200. Ciò vuol dire che le banche non concederanno mutui la cui rata superi 1.200 euro. 


Come fare a capire a questo punto quale importo massimo possiamo chiedere? Entra in ballo la durata che insieme al tasso, è l’altro elemento imprescindibile nella formula del mutuo. Più il mutuo è lungo maggiore è la quota interessi che si pagherà alla banca ma in compenso minore sarà la rata. Oggi in Italia si stipulano mutui in media di 20-25 anni per importi medi di 120mila euro. Prima di cercare l’immobile è bene effettuare qualche simulazione per capire appunto - con il livello dei tassi di mercato - l’importo massimo che possiamo chiedere in prestito considerando il nostro “potere mutuo acquisto” (1.200 nell’esempio).
Se per ipotesi abbiamo intenzione di chiedere un mutuo di 300mila euro, il calcolatore ci indica che al tasso migliore oggi disponibile sul mercato (variabile all’1,5%) con un mutuo di 20 anni pagheremmo una rata di oltre 1.400 euro. Quindi dobbiamo aumentare la durata: a 25 anni infatti la rata scenderebbe a 1.170 e quindi se gli altri requisiti sono giusti (reddito stabile e con potenziale di crescita, età anagrafica sommata alla durata del mutuo non superiore a 75 anni) aumentano le probabilità che la banca finanzi l’operazione.


Se però preferiamo il tasso fisso (che a differenza del variabile resta immutato nel tempo) la prospettiva cambia. In partenza il tasso fisso è sempre più caro del variabile (proprio perché stipulandolo il mutuatario è come se sottoscrivesse un’assicurazione che lo copre da eventuali rialzi dei tassi, assicurazione che quindi ha un costo).
Nella prima parte del 2016 il miglior tasso fisso si aggira intorno al 2,8% (130 punti base in più del variabile). La simulazione ci dice quindi che non potremmo permetterci di chiedere 300mila euro a 25 anni perché la rata risulterebbe di quasi 1.400 euro. Dovremmo quindi optare per una soluzione a 30 anni dato che in questo caso la rata scenderebbe a 1.200 euro e quindi rientrerebbe nel nostro range.


Solo dopo aver chiarito quindi qual è la rata massima sostenibile e avendo quindi scelto il tasso preferito (considerando che il fisso è più caro ma è molto vantaggioso nel caso in cui si prevede un forte rialzo dell’inflazione mentre il variabile costa meno in partenza e potrebbe aumentare in caso di rialzo dei tassi e dell’inflazione) possiamo avvicinarci a capire quale è l’importo massimo di mutuo che possiamo chiedere.


Ma c’è un altro tassello da compiere. La maggior parte delle banche concede mutui per importi non superiori all’80% del valore dell’immobile. Questo significa che non possiamo permetterci di chiedere un mutuo se non abbiamo una liquidità da parte, almeno pari al 20% del valore dell’immobile che ci piacerebbe acquistare. Al momento ci sono solo due banche in Italia che offrono mutui fino al 95% del valore dell’immobile ma in questo caso lo spread (il costo fisso da pagare alla banca che contribuisce al calcolo del tasso di interesse finale) chiesto dall’istituto è più caro. Quindi anche in questo caso bisogna fare le simulazioni perché chiedendo un mutuo al 95% la rata rischierebbe di sforare l’importo massimo sostenibile (1.200 euro nell’esempio), pur spingendo al massimo (cioè 30 anni, di solito le banche non vanno oltre) la scadenza.


Se abbiamo fatto questi calcoli con accortezza e conosciamo su che cifre possiamo muoverci, allora possiamo cercare l’immobile. È inoltre molto importante nel momento in cui dovessimo fare una proposta d’acquisto versando una caparra per bloccare l’appartamento da altre offerte e aspettando che il venditore accetti o meno la nostra proposta di prezzo, inserire una preziosa clausola nella proposta d’acquisto: “salvo buon fine mutuo”. In questo modo potremo recuperare la caparra nel caso la banca o le banche presso cui nel frattempo ci siamo rivolti per chiedere un preventivo e avviare un’istruttoria sulla nostra capacità reddituale e di rimborso non dovessero concederci il mutuo. Perché l’ultima parola sta a loro.


Fonte articolo: IlSole24Ore, Guida Casa.

Super ammortamento del 140% per beni su immobili terzi


Le manutenzioni straordinarie su beni di terzi, in locazione, in leasing, in comodato o a noleggio, possono essere considerate "beni materiali strumentali" agevolabili con la maggiorazione degli ammortamenti del 40% ai fini Ires e Irpef (non Irap), se hanno una funzionalità autonoma e sono staccabili dai beni sui quali sono installate, se sono nuovi e se non rientrano tra quelli esclusi dall'incentivo introdotto dalla legge di stabilità 2016 per gli investimenti effettuati dal 15 ottobre 2015 al 31 dicembre 2016.

 

Via libera, quindi, all’ammortamento maggiorato, ad esempio, per le caldaie, i condizionatori, gli impianti di video sorveglianza, gli impianti fotovoltaici (se considerati beni mobili), installati su fabbricati di terzi ovvero per le attrezzature o gli impianti che, pur essendo installati su beni di terzi già in uso, possono essere separati dagli stessi senza perdere la loro autonoma funzionalità (ad esempio, una pompa nuova installata su un silos noleggiato).


La conferma arriva anche dalla sentenza della Cassazione 7 agosto 2015, n. 16596, secondo la quale spettava l’agevolazione della Tremonti-bis anche alle spese incrementative di un immobile, non di proprietà del contribuente, se contabilizzate in bilancio tra le immobilizzazioni materiali, perché qualificate "come opere aventi una loro autonoma funzionalità ed individualità". È necessario dimostrare che tali beni, al termine del contratto, possono "essere rimossi e utilizzati separatamente dall’investitore", a differenza delle spese incrementative da classificarsi tra le "altre immobilizzazioni immateriali", le quali non costituiscono beni autonomi.


Principi contabili. 
Civilisticamente, i costi sostenuti per migliorie su beni di terzi sono capitalizzabili, se hanno utilità pluriennale. Questi sono iscrivibili tra le "altre immobilizzazioni immateriali" (voce B.I.7), se non sono separabili dai beni stessi, cioè quando non possono avere una loro autonoma funzionalità. In caso contrario, sono iscrivibili tra le "immobilizzazioni materiali", nella specifica voce di appartenenza (ad esempio, impianti generici o specifici, attrezzatura varia e macchinari).


L’ammortamento delle "immobilizzazioni immateriali" per migliorie dei beni di terzi si effettua nel periodo minore tra quello di utilità futura delle spese sostenute e quello residuo della locazione (Oic 24, paragrafi 77 e 95). Quelle classificate tra le materiali, invece, vanno ammortizzate secondo i criteri della specifica voce di appartenenza, quindi, anche in questo caso l’ammortamento dipende dalla "loro residua possibilità di utilizzazione", la quale è influenzata dalla loro utilità futura e comunque dalla durata del contratto di locazione. Quest’ultimo parametro, però, è irrilevante nei casi in cui si decida di tenere questa “miglioria” anche dopo la fine dell’affitto, del leasing o del noleggio, perché si tratta di un bene staccabile da quello di terzi e con autonoma funzionalità.


Tuir. 
Fiscalmente, le spese su beni di terzi iscrivibili tra le “altre immobilizzazioni immateriali” sono oneri pluriennali, quindi, il relativo ammortamento dipende dalle scelte civilistiche in bilancio (articolo 108, Tuir). Invece, se le opere, realizzate su beni altrui, sono contabilizzate civilisticamente tra le immobilizzazioni materiali, l’ammortamento fiscale va calcolato con le aliquote previste dal Dm 31 dicembre 1988 (risoluzione 179/E/2005 e circolari 27/E/2005 e 36/E/2013).


Super-ammortamento. 
Solo le migliorie di beni di terzi iscritte tra le immobilizzazioni materiali, possono essere considerate "beni materiali strumentali" agevolati con il super-ammortamento del 140%. È necessario, però, rispettare anche le altre condizioni, cioè la novità del bene e la sua tipologia. Non sono agevolati, infatti, i “beni materiali strumentali” con coefficienti di ammortamento inferiori al 6,5% , i fabbricati, le costruzioni e i beni di cui all’allegato n. 3 della legge 208/2015.


Fonte articolo: IlSole24Ore, vetrina web.

Nullità delibera condominiale nelle spese di ripartizione

È nulla la delibera dell'assemblea condominiale con la quale, senza il consenso di tutti i condòmini, si modificano i criteri legali di ripartizione delle spese comuni stabiliti dall'art. 1123 c.c. o dal regolamento di condominio contrattuale.


Lo ha ribadito il Tribunale di Perugia con la sentenza n. 602 del 24 marzo 2015. 

Il giudice umbro ricorda che eventuali deroghe alle regole di ripartizione delle spese per beni e servizi comuni, venendo ad incidere sui diritti individuali dei singoli condòmini, possono essere ammesse solo con l'unanimità dei consensi. Ne consegue la radicale nullità della delibera, anche se approvata a maggioranza qualificata. La stessa potrà essere dunque impugnata senza limiti di tempo e da chiunque, anche dai condòmini che abbiano espresso voto favorevole alla deroga.


La sentenza in commento riguarda l'impugnazione della delibera condominiale con la quale l'assemblea aveva approvato, a maggioranza, il bilancio consultivo e il relativo riparto, entrambi predisposti utilizzando criteri difformi da quelli contenuti nel regolamento condominiale. L'attore, in particolare, contestava il comportamento dell'amministratore, che aveva ripartito le spese con criteri diversi da quelli previsti nel regolamento, senza la preventiva convocazione sullo specifico punto dell'assemblea e senza, dunque, l'unanimità dei consensi di tutti i condòmini.


Il Tribunale, in accoglimento della domanda, ha stabilito che l'introduzione di un nuovo e diverso criterio di ripartizione delle spese, diverso da quello previsto dal regolamento condominiale e di tabelle ad esso allegate, comporta la nullità della delibera, ai sensi dell'art. 1123 c.c. e 68 disp. att. c.c.
Esula dalle attribuzioni dell'assemblea l'adozione di criteri di ripartizione delle spese diversi da quelli legali ex art. 1123 o da quelli previsti nel regolamento di condominio.


Tale modifica può avvenire infatti solo con il consenso unanime dei condòmini, cioè attraverso un vero e proprio accordo contrattuale, con il quale tutti i partecipanti al condominio esprimono la volontà di procedere alla ripartizione delle spese comune con criteri differenti. In mancanza di tale accordo, la delibera, anche se adottata a maggioranza qualificata, è nulla. Ciò significa che, ai sensi dell'art. 1421 c.c., l'invalidità della delibera “può essere fatta valere dal condòmino che vi abbia interesse, presente o assente, consenziente o dissenziente che sia stato all'approvazione della delibera impugnata, e non è soggetta a termine di impugnazione”.


La sentenza in commento non rappresenta certo una novità nel panorama giurisprudenziale, ponendosi in linea con l'orientamento seguito dalla Corte di Cassazione.
I giudici di legittimità, infatti, hanno più volte affermato che: “deve ritenersi affetta da nullità, che può essere fatta valere dallo stesso condomino che abbia partecipato all'assemblea ancorché nella stessa abbia espresso parere favorevole e quindi sottratta al termine di impugnazione di giorni trenta previsto dall'art. 1137 c. c., la delibera dell'assemblea condominiale con la quale, senza il consenso di tutti i condomini, si modifichino i criteri legali ex art. 1123 c.c. o di regolamento contrattuale di riparto delle spese, per la prestazione di servizi nell'interesse comune. Ciò in quanto eventuali deroghe, venendo ad incidere sui diritti individuali del singolo condomino attraverso un mutamento del valore della parte di edificio di sua esclusiva proprietà, possono conseguire soltanto ad una convenzione cui egli aderisca. Ne consegue che la modifica a maggioranza, sia pure qualificata, del criterio di ripartizione delle spese, e non all'unanimità, si deve considerare nulla e l'azione può essere proposta in ogni tempo anche da chi abbia partecipato con il suo voto favorevole alla formazione della delibera nulla (Cass. civ. n. 15042 del 14.6.2013).


Fonte articolo: Condominioweb.com

Leasing vs mutuo: qual è più conveniente?

Nell’ultimo anno sono stati stipulati in Italia molti più mutui: il 97% in più stando agli ultimi dati dell’Abi. Un terzo di questi sono surroghe, cioè miglioramenti di vecchi mutui (modificando tasso e/o durata). Il tutto però a fronte di un mercato immobiliare che sta leggermente risalendo dopo anni di crisi.


Cresce la domanda e crescono un po’ le compravendite ma non certo i prezzi.

La legge della domanda e dell’offerta del resto è di limpida semplicità: i prezzi crescono solo quando la domanda supera l’offerta. In questo contesto che la domanda superi l’offerta è tecnicamente impossibile considerata la mole di immobili invenduti che circola.
In ogni caso dalla ripartenza del mercato immobiliare dipende anche buona parte della ripresa economica perché il real estate crea lavoro su ampia scala e favorisce un certo ottimismo che si autoalimenta. È anche per questo motivo che probabilmente il governo ha introdotto da gennaio delle importanti agevolazioni in tema di leasing immobiliare.


Finora il leasing è conosciuto prevalentemente dai privati per la macchina, l’obiettivo è agganciarlo anche al concetto della casa. È previsto in particolare che chi sceglie la formula del leasing, preferendola al mutuo, all’affitto o all’affitto con diritto di riscatto, abbia il fisco particolarmente amichevole. Cosa è il leasing? In due parole: la banca acquista l’immobile e il cliente prende possesso dell’immobile pagando un canone d’affitto (a tasso fisso o variabile) periodico fissando all’inizio dell’operazione anche il prezzo dell’eventuale riscatto, al termine del piano di leasing che solitamente dura 12 anni ma in questi casi può spingersi anche fino a 20.


Secondo la nuova Legge di Stabilità, gli under 35 con un reddito annuo non superiore a 55mila euro possono detrarre ogni anno dall’Irpef il 19% fino a un massimo di canoni pagati di 8mila euro (quindi 1.520 euro). Per gli over 35 anni invece l’agevolazione è identica a quella oggi prevista per il mutuo prima casa, si può detrarre il 19% ma fino a 4mila euro (quindi massimo 758 euro l’anno).
La grande differenza con il mutuo però riguarda il fatto che nel leasing il montante su cui calcolare il 19% di esenzione fiscale è dato dall’intero importo del canone mentre sul mutuo riguarda solo la quota interessi della rata.
Ad esempio se in un anno ho pagato su un mutuo rate per 6mila euro ma di questi 6mila, 4mila rappresentano la quota capitale e 2mila la quota interessi, su un mutuo prima casa il 19% viene calcolato su 2mila. Mentre nel caso del leasing sarebbe calcolato su 6mila.


Inoltre per il leasing è prevista un’altra agevolazione. Chi decide di riscattare l’immobile al prezzo concordato inizialmente e quindi di passare dalla condizione di locatario a quella di proprietario, potrà detrarre dall’Irpef il 19% di un importo massimo di 20mila euro. Se quindi per riscattare la casa aggiungo 30mila euro, potrò detrarre dall’Irpef 3.600 euro (cioè il 19% di 20mila).
Dal punto di vista fiscale quindi, per un under 35, il leasing parte in deciso vantaggio. Perché se risparmio ogni anno fino a 1.520 euro (contro i 758 potenziali del mutuo) per 20 anni ho un tesoretto di circa 14mila euro. Se a questi poi aggiungo i potenziali 3.600 euro in caso di riscatto arriviamo oltre i 17mila euro.


Il mutuo invece di norma rosicchia qualcosa sul lato tassi. I tassi dei mutui (sia fisso che variabile) oggi a livello nominale (cioè senza considerare l’inflazione) sono ai minini storici. Si stipula un variabile anche sotto l’1,5% e un fisso anche al 2,5% (nelle migliori delle ipotesi). Mentre con il leasing i tassi dovrebbero essere mediamente un po’ più alti. Quindi quando si chiede un preventivo di leasing prima casa bisogna confrontarlo anche con gli interessi che si risparmierebbero invece con il mutuo. Se questi battono i 14-17mila euro di vantaggio base del leasing, a quel punto il mutuo torna in vantaggio.


Un altro vantaggio del mutuo è dato dal fatto che offre la possibilità di estinzione anticipata gratuita. Mentre con il leasing bisogna andare fino in fondo ed eventualmente decidere di non riscattare l’immobile.


Il mutuo poi si può spingere su durate fino a 30 anni mentre il leasing nella migliore delle ipotesi arriva a 20 anni. Il leasing prima casa però ha dalla sua il fatto che consente di prendere possesso dell’immobile anche avendo poca liquidità iniziale e per questo si rivolge ai giovani che fanno fatica ad accendere un mutuo (il maxi-canone d’anticipo di solito è pari al 10% del valore dell’operazione) mentre con un mutuo medio bisogna avere il 20% di contanti, considerato che la maggior parte delle banche non concendono oggi mutui superiori all’80% del valore dell’immobile.


Un’altra differenza riguarda la morosità. La banca può avviare la procedura di pignoramento dopo sette rate di mutuo non pagate. Mentre la misura è un po’ più rigida nel caso di leasing. Può bastare anche una rata non pagata (in assenza della perdita del posto di lavoro senza giusta casa) per essere sfrattati dalla banca.


Pro e contro da ambo le parti, in ogni caso, da valutare con attenzione. Un’ultima cosa, però. "Non è detto che le banche si strappino i capelli per concedere leasing immobiliari prima casa - spiega Luca Dondi, analista di Nomisma -. Con il leasing le banche infatti vanno ad acquistare - per conto del locatario e in attesa di un suo eventuale futuro riscatto - un immobile. Ma in questo momento le banche sono piene di immobili per effetto dei numerosi pignoramenti avvenuti durante gli ultimi anni di crisi. Quindi non sono portate ad aumentare la quota di immobili in pancia in un momento in cui gradirebbero anzi liberarsene in tempi brevi. Anche per questo motivo molti istituti oggi stanno creando delle agenzie immobiliari interne o dei network per liquidare più in fretta i propri asset immobiliari. Il leasing da questo punto di vista andrebbe nella direzione opposta.


Non c’è quindi un vero vincitore. L’importante è conoscere le differenze e adeguarle alle proprie necessità. Sempre con la calcolatrice in tasca.


Fonte articolo: IlSole24Ore

Come fare per mettere a reddito l'immobile?


Il 2016 con un mercato in recupero impone però cautela, per via della situazione economica e geopolitica internazionali. E impone di fare attenzione sia che si voglia vendere casa sia che si intenda avvicinarsi all’acquisto. 


Come deve approcciare il mercato immobiliare chi decide di valutare l'acquisto? 

 

 

Il potenziale acquirente ha davanti grandi opportunità in termini di offerta. Può quindi scegliere di valutare senza fretta l'investimento in cerca dell'occasione migliore. La fase di miglioramento del mercato residenziale italiano sarà lenta e graduale. Anzi, data l'incertezza della situazione, sulla quale pesano diverse variabili come la ripresa dell'economia e i rapporti di geopolitica mondiale, nei prossimi mesi le quotazioni dovrebbero scendere ancora e quindi è probabile che aspettando si possano spuntare prezzi migliori. Oggi si compra bene, ma tra sei mesi si potrebbe comprare anche meglio. Al momento il prezzo medio in Italia – dato che naturalmente comprende valori molto diversi - secondo i dati di Nomisma è pari a 1.943 euro al metro quadrato contro i 2.753 euro in termini reali del 2007.


Vedendo la situazione dal punto di vista del venditore, come si fa a “vender bene”? 

Il mercato vive oggi una fase di eccesso di offerta sempre più evidente. Il percorso per arrivare alla vendita non è breve e per questo c'è maggiore necessità di essere attivi nel proporre l'immobile. È importante la modalità di presentazione della casa e bisogna utilizzare diversi canali per arrivare alla clientela, sfruttando anche le App utilizzabili su Ipad e smartphone. Gli esperti consigliano ricchezza nella descrizione e nel materiale fotografico, che deve essere di alta qualità per non provocare sorpresa al momento del contatto. Con tanta offerta sul mercato il potenziale acquirente tenderà ad abbandonare gli immobili che vengono presentati in maniera poco trasparente, approssimativa e con informazioni scarne e non veritiere.


Quali sono oggi i tempi medi di vendita da mettere in conto? 

In questa fase siamo intorno ai 7-8 mesi. L'elemento importante è che negli ultimi mesi per la prima volta dopo diversi anni i tempi non si sono allungati. Esiste comunque uno stock in giacenza, in genere di scarsa qualità, che ha tempi ben più lunghi per arrivare al contratto. Nel segmento del lusso si viaggia invece verso 12 mesi e in questo segmento la giacenza arriva anche a oltre 24 mesi.


Quale strategia adottare se non si riesce a vendere? 

La prima scelta sarebbe quella di abbassare il prezzo per incontrare la domanda. Ma questa mossa ha effetto solo se parliamo di un immobile di discreta qualità. In alcuni casi, poi, lo sconto potrebbe non essere sufficiente perché se una casa sta troppo tempo sul mercato perde appeal. La scelta è quindi tra ridurre il prezzo oppure fare un investimento nella riqualificazione dell'esistente, una strategia che riguarda certamente la locazione ma anche la vendita.


Chi acquista un immobile può ancora sperare in una rivalutazione, come si è sempre detto?

Bisogna distinguere innanzitutto le finalità. L'acquisto della prima casa è dettato dalle necessità del singolo o della famiglia, è una scelta di medio-lungo periodo, e va considerato anche il fatto che serve a soddisfare un bisogno abitativo. Diverso è l'acquisto di una seconda casa al mare o in montagna o l'acquisto di un appartamento per investimento. Anche in questo caso, però, chi acquista non deve puntare alla rivalutazione nel breve termine. Guadagni in capital gain non sono probabili di questi tempi con quotazioni ancora in discesa: secondo gli esperti nel 2016 vedremo valori in calo dell'1% circa. Inoltre, va considerata anche l'inflazione praticamente a zero.


C'è il rischio che i tassi stiano per aumentare? È questo il momento giusto per investire? 

Dai segnali Usa di rinvio di operazioni sui tassi si capisce che non ci saranno prospettive di intervento sui tassi in Europa e i segnali che arrivano dall'economia continentale e nazionale non sono certo entusiasmanti.


Come deve regolarsi, allora, chi vuole acquistare un immobile da mettere a reddito? 

Se decido di investire per mettere a reddito l'immobile devo tenere presente alcuni capisaldi nella scelta. Ad esempio, è meglio acquistare un appartamento piccolo in zona centrale che grande in periferia. E ancora, è meglio acquistare un appartamento in una grande città che in provincia, perché così mi garantisco una maggiore rivendibilità e affittabilità. In generale, comunque, approfittare di prezzi bassi e tassi di interesse ai minimi storici consente di cogliere occasioni interessanti, a patto che la location dove si trova l'appartamento sia appetibile sul mercato dell'affitto. Ad esempio, se la casa si trova in città universitarie, e soprattutto in zone ben servite dai mezzi di trasporto, arriva a rendere anche il 5-6 per cento.


Fonte articolo: IlSole24Ore.com 

 

 

Prezzi case stabili e aumento costruzioni a fine 2015


Nel quarto trimestre del 2015 è proseguito il graduale miglioramento del mercato immobiliare.


La quota di Agenti che segnala un calo dei prezzi di vendita delle abitazioni ha continuato a ridursi, risultando minoritaria per la prima volta dalla primavera del 2011, a fronte di una prevalenza dei giudizi di stabilità. 


La percentuale di operatori che hanno venduto almeno un’abitazione è cresciuta, in connessione con le favorevoli condizioni della domanda. 

 

GLI IMMOBILI PIU' VENDUTI E gli INCARICHI DELLE AGENZIE

Secondo l’indagine congiunturale sul mercato delle abitazioni in Italia condotta congiuntamente dalla Banca d’Italia, da Tecnoborsa e dall’Agenzia delle Entrate, nel trimestre di riferimento gli operatori hanno intermediato in prevalenza immobili di metratura fino a 140 mq abitabili o parzialmente da ristrutturare, con classe energetica bassa.


Si è rafforzato l’ottimismo degli Agenti sull’evoluzione a breve termine del proprio mercato di riferimento, grazie soprattutto alle attese più favorevoli sull’andamento dei prezzi e dei nuovi incarichi a vendere.
Anche nell’orizzonte di medio termine (due anni) emerge un maggiore ottimismo circa le prospettive del mercato nazionale.

 
PRODUZIONE DELLE COSTRUZIONI

A dicembre 2015 l'indice della produzione nelle costruzioni ha registrato, rispetto al mese precedente, un aumento dello 0,6% in termini tendenziali. 
Nella media del 2015 l'indice è diminuito dell'1,9% rispetto al 2014. È quanto si legge nell’ultimo comunicato dell’Istat sulla produzione nelle costruzioni, pubblicata ieri. 


Per quanto ancora negativo, il calo della produzione annuale dell’1,9% (2015 su 2014) non rappresenta un numero così negativo, se confrontata con gli analoghi indici degli anni precedenti. Infatti, se si guarda alla serie storica che parte dal 2010, le contrazioni (sempre riferite al dato tendenziale corretto per gli effetti del calendario) sono state sempre molto più consistenti dell’ultimo dato Istat: -3,6% nel 2010 rispetto al 2009; -4,2% nel 2011; -13,5% nel 2012, -10,6% nel 2013, -6,9% nel 2014 e, infine, -1,9% nel 2015. 
Questi numeri tracciano una parabola che lascia immaginare una possibile inversione di tendenza, nel prossimo anni. 


Questa impressione è confermata - anzi già effettivamente anticipata - su base mensile. E qui bisogna tornare all’iniziale dato di dicembre 2015 di un +0,6% (su dicembre 2014). Il dato positivo di dicembre segue quello positivo di novembre, molto marcato: +4,0 per cento. 
È la prima volta in tutti questi anni che l’Istat registra due variazioni positive consecutive (sempre relativamente al dato corretto per gli effetti del calendario). 
Se anche il prossimo mese di gennaio (la cui rilevazione sarà pubblicata dall’Istat il 17 marzo) sarà positiva, l’aspettativa di una ripresa poggerebbe su un intero trimestre “rosa”.


COSTI DI COSTRUZIONE

Costi di costruzione dei fabbricati in crescita.
Lo scorso dicembre l'indice del costo di costruzione di un fabbricato residenziale aumenta dello 0,1% rispetto al mese precedente e dello 0,5% nei confronti di dicembre 2014. In media annua, nel 2015 l'indice cresce dello 0,5% rispetto all'anno precedente.  
Nel mese di dicembre 2015, rispetto al mese precedente, con riferimento al fabbricato residenziale i costi dei materiali aumentano dello 0,3%.


Fonti articolo: Quifinanza.itEdiliziaeterritorio.com 1, Ediliziaeterritorio.com 2  

Risparmio energetico: quale bonus è più conveniente?

Per stufe a biomassa e termocamini quale bonus è meglio sfruttare? Le detrazioni per la ristrutturazione e per il risparmio energetico o gli incentivi del Conto termico?


La modalità di rimborso è solo uno dei criteri da seguire nella scelta tra le agevolazioni disponibili, che differiscono anche per struttura, procedura di accesso, parametri di rendimento richiesti, ritorno economico. Partiamo da quest’ultimo. 

 

Il più conveniente è offerto dall’Ecobonus fiscale, che per le spese sostenute entro il 31 dicembre 2016 consente una detrazione del 65% (fino a un massimo di 30mila euro) per l’acquisto e la posa in opera di impianti con generatori di calore alimentati da biomasse combustibili: come ad esempio stufe e caminetti a legna o pellet. Lo sconto vale per la sostituzione totale o parziale del vecchio generatore termico o anche per nuova installazione, su edifici esistenti. E i requisiti richiesti ai nuovi apparecchi – come spiega l’Enea – includono un rendimento utile nominale minimo non inferiore all’85% e la conformità alle classi di qualità A1 e A2 delle norme Uni-En 14961-2 per il pellet e Uni-En 14961-4 per il cippato. 


Per ottenere la detrazione, spalmata in dieci anni, si deve seguire un iter che prevede, oltre al pagamento con bonifico “parlante” e l’asseverazione del tecnico, l’invio telematico di una scheda informativa all’Enea (compilabile anche dall’utente) entro 90 giorni dal termine dei lavori. L’ultima legge di Stabilità, prorogando per tutto il 2016 l’ecobonus al 65%, ha confermato anche questo specifico “capitolo” dedicato ai generatori a biomassa, introdotto dal 2015. Prima di allora, l’intervento poteva ricadere solo nella riqualificazione energetica generale, che vede un tetto alle spese detraibili più alto (100mila euro), ma impone determinati obiettivi di prestazione energetica finale dell’edificio. Possibilità, comunque, ancora in piedi.


In alternativa all’Ecobonus c’è la detrazione per le ristrutturazioni, che copre gli interventi di risparmio energetico e agevola gli impianti a legna o pellet con rendimento non inferiore al 70%. Anche questa detrazione si spalma in dieci anni ed è stata prorogata per il 2016 ai valori massimi (50% di sconto e limite di spesa agevolabile a 96mila euro per unità immobiliare). Vi rientrano i costi per l’acquisto e l’installazione di caminetti o stufe, compresa la realizzazione e il rifacimento della canna fumaria: ma non sono richiesti gli altri obblighi previsti dal 65%, come la trasmissione dei documenti all’Enea (rimane fondamentale il bonifico “parlante”).
Allo stato attuale, l’alternativa tra i due bonus fiscali (e i rispettivi limiti di spesa e detraibilità) dovrebbe cadere nel 2017, quando resterà in piedi soltanto l'agevolazione per il recupero edilizio, con sconto “originario” del 36% (e tetto di spesa agevolabile a 48mila euro).


Fuori dal campo delle detrazioni (con cui non è cumulabile), c’è poi il Conto termico, che non offre uno sconto sulle tasse ma un contributo diretto, in due rate annuali per le taglie “domestiche”: non si pesa, dunque, la capienza fiscale del beneficiario. L’incentivo è erogato dal Gse (sul cui sito va inoltrata la domanda) per la sostituzione di impianti di riscaldamento con altri dotati di generatori a biomassa. La percentuale di rimborso è intorno al 40%, ma può rivelarsi inferiore perché calcolata in base ad alcuni fattori: potenza termica, coefficiente di utilizzo (riferito alla fascia climatica), di valorizzazione dell’energia e sostenibilità ambientale (emissioni di polveri).
Stufe e termocamini devono rispondere a requisiti quali la conformità alle relative norme Uni-En; rendimento termico utile maggiore dell’85%; emissioni in atmosfera non oltre i valori tabellati.
Il sistema del conto termico è stato rivisto da un recente decreto del Mise, che entrerà in vigore nei prossimi mesi. Tra le novità attese, un catalogo di apparecchi termici fino a 35 kW di potenza, già “validati” dal Gse, per i quali si potrà usufruire di un iter semplificato. 


In conclusione, il rimborso è più veloce con il Conto termico, ma più elevato con le detrazioni del 65%.


Fonte articolo: IlSole24Ore, vetrina web.

Chi acquista ora preferisce le metrature ampie

"Negli ultimi anni il mercato immobiliare ha visto i prezzi scendere progressivamente e questo ha comportato un cambiamento anche a livello di richieste”.


Lo evidenzia l'Ufficio studi di Tecnocasa che ha analizzato le tipologie immobiliari domandate dai potenziali acquirenti nelle grandi città.

“Dal 2013 in poi – spiega l'Ufficio studi - si nota una diminuzione progressiva delle percentuali sui tagli più piccoli come monolocali e bilocali. Al contrario, si segnala un aumento per le tipologie più ampie, dal trilocale in poi. Questo è avvenuto proprio a causa del ribasso dei prezzi che ha reso possibile l’acquisto di immobili più ampi, soprattutto il trilocale, scelto da tante giovani coppie che hanno saltato la classica fase in cui si acquistava prima il bilocale per poi passare all’appartamento con una camera in più.


L’analisi della disponibilità di spesa, invece, registra un progressivo aumento nelle fasce più basse, fino a 170.000€ il che significa che è salita la percentuale di persone che hanno voluto o potuto destinare all’acquisto immobiliare meno capitali. E questa è stata una delle cause che ha determinato il ribasso dei prezzi immobiliari e che è stata dovuta soprattutto all’atteggiamento prudenziale attuato dagli istituti di credito a partire dalla fine del 2007”.


Fonti articolo: Casaeclima.com

Crescono i mutui con importi più bassi

Risultati storici per il Barometro Crif relativo al mese di gennaio 2016: in questa rilevazione, infatti, l’importo medio richiesto è arrivato al minimo storico da quando l’istituto si occupa di monitorare la situazione dei mutui in Italia. 


La cifra richiesta si è fermata a 120.114 euro, la più bassa di sempre, segno che le famiglie sono sempre più attente a scegliere o accontentarsi di soluzioni abitative che non intacchino eccessivamente i loro budget familiari, con rate troppo elevate.

C’è da dire che sul calo delle cifre medie richieste giocano un importante ruolo anche le surroghe che, solitamente, hanno importi minori rispetto ai nuovi mutui.


Nonostante la riduzione degli importi, prosegue il trend positivo di crescita e di recupero rispetto a quanto si registrava prima della crisi: anche il mese di gennaio 2016, difatti, è in positivo per il numero di mutui richiesti formalmente e ha segnato un +48,6% rispetto allo stesso mese del 2015. Si parla di ripresa, sì, ma se si confronta questo gennaio con quello del 2010 ci si rende conto di essere ancora lontani, seppur meno, dai livelli pre-crisi (-8,1% nel confronto 2016 vs. 2010). Ma la crescita ormai non si arresta e sono due anni che il mercato dei mutui gonfia la sua portata ininterrottamente, sia per le condizioni favorevoli dell’economia e dei costi delle case, così come della nuova apertura dei rubinetti del credito, sia per l’importantissimo ruolo delle surroghe che stanno rappresentando un importante volano della ripresa, grazie ai vantaggiosi tassi di interesse in corso.


Per quanto riguarda l’identikit del mutuo e del mutuatario italiano, rimane quella superiore ai 15 anni la durata preferita (66,2%) per il finanziamento, proprio per puntare a rate più ridotte. I due terzi delle richieste arriva dagli under 44 e il 36,4% dei richiedenti rientra nella fascia d’età tra i 35 e i 44 anni.


Fonti articolo: Immobiliare.it

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