Consumo di suolo e riqualificazione urbana: che fare?


Il riscaldamento globale avrà effetti sulle nostre città anche per come sono pianificate e costruite. Attualmente la superficie urbanizzata procapite è di circa 350 metri quadrati per abitante, praticamente un deserto di cemento che annulla ogni capacità di adattamento e di resilienza dei sistemi naturali e trasforma gli insediamenti urbani in aree a maggior rischio. 


Le città ‘impermeabili’ amplificano i fenomeni legati ai cambiamenti climatici, come gli incrementi delle temperature massime, la concentrazione delle piogge a fronte di lunghi periodi di siccità, innalzamento del livello del mare.

 

Alla vigilia della Giornata mondiale del Suolo, celebratasi il 5 dicembre, il WWF ha proposto di dotare al più presto il Paese di norme e regole efficaci che interrompano il consumo del suolo consentendo ai Comuni di compiere scelte urbanistiche che individuino aree verdi e libere dedicate all’adattamento climatico e consentire la mitigazione/riduzione degli impatti e la resilienza dei sistemi naturali, mettendo in grado le nostre aree urbane di far fronte adeguatamente ai fenomeni estremi che le flagellano.
Il tema si collega a quanto dovrebbe scaturire dal Vertice sul clima in corso a Parigi e soprattutto all’incontro con i 1.000 sindaci delle maggiori città del mondo che hanno chiesto un Accordo vincolante ai negoziati in corso. 


Anche in Italia si cominciano a compiere i primi passi positivi. Basti pensare alla proposta di nuovo Regolamento edilizio del Comune di Milano che indica la riqualificazione sociale e funzionale delle aree ai fini anche della difesa dell’incolumità pubblica quale valore di interesse pubblico da tutelare o al Programma per la riqualificazione diffusa del territorio urbano strutturato del Comune di Bologna che ha come primo obiettivo  quello di incentivare il recupero e la riqualificazione urbanistica finalizzati ad un minore consumo di suolo, alla riduzione della impermeabilizzazione, al risparmio energetico e alla sicurezza degli edifici esistenti, favorendo la formazione di un ambiente urbano a elevate prestazioni.


La parola d’ordine che lancia il WWF nei giorni di Parigi è “consapevolezza” degli amministratori, dei tecnici e dei cittadini che sia necessario affrontare caso per caso, in ogni nostra realtà urbana,  valutando nei Piani e Programmi  urbanistici il problema della capacità di resilienza dei nostri sistemi naturali, tutelandone l’integrità, progettando e rigenerando spazi liberi, verdi non impermeabilizzati, avendo come riferimento seri studi sulla magnitudine degli impatti climatici prevedibili nelle diverse realtà urbane.


Se la conversione urbana e il consumo del suolo continua ai ritmi che abbiamo seguito per 50 anni in Italia, rischiamo che (con un trend di crescita della popolazione vicino a quello registrato dal 2001 al 2011) con quasi 3 milioni di abitanti in più nel prossimo decennio si abbiano altri 1000 kmq di territorio urbanizzato aggiuntivo corrispondente alla sparizione dell’intero Agro Pontino. Questi i dati forniti dal WWF sulla base della ricerca “Terra rubata” (a cui l’associazione partecipa) coordinata da Bernardino Romano (Università dell’Aquila) e da Francesco Zullo.


Lo studio sul suolo.
Il WWF dunque propone di bloccare questo modello ipertrofico di consumo del suolo (in soli 50 anni, dal 1950 al 2000,  si è passati in Italia dal 2% ad oltre il 7% di densità di urbanizzazione, cioè tre volte di più nonostante un incremento della popolazione che è stato di solo il 20%) e di adottare l’approccio all’adattamento climatico indicato sin dal 2007 dallo IPCC (Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici) che indica la strada maestra della “modifica dei sistemi naturali o umani in risposta a stimoli climatici in atto o attesi o ai loro effetti, che riduce i danni o sfrutta le opportunità più vantaggiosi”, alla base anche della Strategia Nazionale sull’Adattamento Climatico, approvata il 30 ottobre 2014 ma non ancora divenuta operativa. Questa è un’opportunità che non abbiamo ancora saputo sfruttare, come emerge dalla ricerca “Terra rubata” (che ha compiuto analisi originali approfondite sulle carte IGM e le mappature regionali) consentendo che la grigia epidemia dell’asfalto e del cemento si diffondesse ad una velocità media di 82 ettari al giorno (10 mq al secondo) colpendo in particolare le nostre coste e le nostre pianure.


Dalla ricerca “Terra rubata” emerge anche che le nostre coste (peninsulare, Sicilia e Sardegna)  sono state cementificate ad un ritmo di circa 10 km/anno, facendo registrare un dato sostanzialmente e singolarmente omogeno per la costa adriatica, tirrenica e per ambedue le coste delle isole maggiori. La sola Pianura Padana ha contribuito per oltre un terzo (30 ha/g) al fenomeno nazionale (82 ha/g) pur occupando un sesto del territorio italiano. Anche i parchi, le zone tutelate per eccellenza dove più alto è il grado di naturalità,  sono sotto assedio in Italia: si calcola, valutando cosa è successo in un buffer di immediata adiacenza largo 1 km, che il territorio attualmente urbanizzato sia al 10% (quasi 5 volte in più degli anni '50), cioè più della media nazionale (7%).


Dalla ricerca emerge inoltre che il modello insediativo in Italia rispetto all’Europa occidentale è molto più dispersivo e funzionalmente disorganico (definito “sprinkling” a fronte dello standard internazionale “sprawl”). Per questi motivi il WWF chiede un salto di qualità nella cultura amministrativa e urbanistica del nostro Paese, ritenendo che per ridurre gli impatti climatici sugli insediamenti urbani (il WWF ricorda che la letteratura ne individua ben 13) non siano più sufficienti gli interventi, seppur virtuosi, di riuso e rigenerazione urbana basati su infilling (collocazione dei siti dismessi di funzioni sostitutive economicamente vantaggiose) o di densificazione (utilizzando i singoli spazi interstiziali inutilizzati o dismessi) ma sia necessario dare negli strumenti di pianificazione spazio e respiro ai sistemi naturali, ampliando la dotazione di verde ed orti urbani (green and blue infrastructure), promuovendo la diffusione di tetti verdi e di greening delle superfici artificializzate.  


E’ dalla pianificazione che bisogna partire per contrastare il cambiamento climatico e prevenire il rischio idrogeologico, lo hanno dimostrato le più grandi metropoli del mondo: è dal 2013 che Londra ha sviluppato il progetto Green Grid per far fronte al rischio inondazione e nel contempo garantire le connessioni delle reti ecologiche, mentre New York si è dotato di un Green Infrastructure Plan.


Fonte articolo: http://www.guidaedilizia.it/Articoli.asp?ID=11528&Click=y

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